Sulla post-fotografia
“Davanti all'obiettivo io sono contemporaneamente: quello che io credo di essere, quello che vorrei si creda io sia, quello che il fotografo crede io sia, e quello di cui egli si serve per far mostra della sua arte.”
Roland Barthes
“Chi vede correttamente la figura umana? Il fotografo, lo specchio, o il pittore?”
Pablo Picasso
La fotografia contemporanea, con la sua vasta gamma di pratiche, si offre come un fecondo linguaggio di base, una trama capace di trasfigurare narrazioni visive in forme inedite che vanno ben oltre i confini tradizionali. Nonostante i miei lavori si caratterizzino per una marcata ibridazione con la parola, i segni geometrici, la matericità degli interventi manuali, li considero sempre delle fotografie (o post-fotografie) per svariati motivi. Ad esempio la connessione storica e teorica, di cui cerco continuamente un richiamo, il rapporto con la realtà (anche se palesemente manipolato), l’idea di traccia o indice di Peirce (ovvero quel segno che ha una connessione fisica diretta o una relazione causale con il suo oggetto). C’è poi la memoria, la riproducibilità (seppure limitata dagli interventi manuali più istintivi) e il documento. Usare elementi fotografici significa quindi dialogare costantemente e in modo critico, con questo bagaglio. Scegliendo consapevolmente di partire da un’immagine fotografica (con la sua peculiare resa dei dettagli, delle texture, la sua aura di "realtà catturata") piuttosto che da un disegno o da un’immagine puramente generata, si effettua una scelta che ha un rilevante peso semantico. Ovvero si aggiunge inevitabilmente uno strato di lettura legato alla specificità del medium fotografico (e al suo ruolo culturale e storico) anche quando viene pesamente decostruito e ri-contestualizzato. Ricordiamo che la scelta del mezzo è essa stessa parte del concetto: interrogarsi se un’opera sia "fotografia", "scultura", "installazione" o altro, e perché l’artista operi in quella zona di confine, è parte integrante dell’analisi concettuale. L’ambiguità mediale può essere una strategia concettuale deliberata per far riflettere lo spettatore sulla natura dell’immagine, dell’arte e della percezione. Di contro, proporsi come estranei a questa pratica di scrittura con la luce, ad esempio attraverso etichette come: arte visuale, collage digitale offre sicuramente maggiore libertà da definizioni potenzialmente limitanti e apertura verso un pubblico più ampio, ma sbiadisce quel dialogo critico con la storia e la specificità della fotografia, ignorando sia le implicazioni dell’uso di materiale fotografico sia la disconnessione dalle mie stesse radici formative. Il riconoscimento della centralità del linguaggio fotografico di partenza, la valorizzazione della manipolazione e della decostruzione come pratiche interne al suo campo allargato, lo sfruttamento consapevole del peso semantico della fotografia, sono tutti elementi essenziali della mia ricerca. Porsi queste domande è fondamentale, soprattutto quando un’opera si rifiuta di rientrare nettamente in una categoria predefinita (collage? grafica? arte concettuale?). Questa "resistenza" alla classificazione non è un difetto o un’indecisione, ma una strategia semantica attiva, un modo per generare significato. Come? Mettendo in discussione le aspettative dello spettatore, costringendoci a chiederci: "cosa sto guardando esattamente? E come dovrei leggerlo?", si apre uno spazio per una riflessione più attiva. Accostando elementi eterogenei, si impone una riflessione sulle qualità specifiche di ciascun linguaggio e su cosa succede quando interagiscono. Perché allora usare una fotografia e non disegno? Per evocare la traccia di qualcosa che è esistito. E perché aggiungere forme grafiche astratte? Per creare un contrasto, simboleggiare un ordine (o disordine) imposto e per introdurre un elemento puramente estetico o strutturale che dialoga con il contenuto figurativo. La sfida alla categoria unica mette in luce la materialità e le connotazioni di ciascun componente. Viviamo in un mondo culturalmente e tecnologicamente ibrido, dove immagini, testi e dati si mescolano costantemente. Un’opera che sfida le categorie artistiche tradizionali può rispecchiare più fedelmente la nostra realtà frammentata, multi-strato e interconnessa. In questo modo l’opera diventa un campo di dialogo (o di conflitto) tra diverse modalità di rappresentazione e comunicazione, dove il significato emerge proprio da questa tensione irrisolta. Sfidare le categorie è sempre un modo per affermare la propria libertà dalle convenzioni e dai limiti imposti dalle tradizioni, è la dichiarazione che l’arte può trascendere le etichette e utilizzare qualsiasi linguaggio si renda necessario per esprimere una visione. Resta un’ultima parola su alcuni interventi fisici (la goccia di vernice leggermente a rilievo, la linea tracciata con un pastello o un pennarello che lascia una traccia materica) che sottolineano esplicitamente la natura di oggetto, rompendo la superficie potenzialmente liscia e uniforme dell’immagine. L’intervento manuale è sempre un segno diretto, gestuale, personale, un vero e proprio atto di incarnazione che certifica la presenza fisica dell’autore sull’opera finita. Questi ritocchi agiscono come un ponte, un punto di sutura tra l’origine fotografica o digitale dell’immagine e la sua realtà finale come oggetto fisico. Sono il segno tangibile e la volontà di abitare entrambi i mondi. Una linea tracciata a mano può suggerire un movimento, un’energia, una carezza o una ferita inferta alla superficie, aggiungendo un livello dinamico ed emotivo. La stessa irregolarità, l’apparente casualità di una macchia, introducono un elemento di imperfezione, di "rumore" umano, che contrasta con la potenziale perfezione della tecnologia e arricchisce l’opera di calore e vulnerabilità; è come aggiungere un contrappunto simbolico, una lacrima o un sigillo finale che ne rafforza il messaggio. In questo spazio di mezzo fra tradizioni e nuovi linguaggi visivi, tra virtualità e fisicità, tra concetto e materia, trovo la mia dimensione espressiva più autentica. Non mi interessa risolvere l’ambiguità, ma abitarla consapevolmente.
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