La fotografia tra i ready-made e le parole in libertà


"La scrittura ha cessato di essere la prosa del mondo; le somiglianze e i segni hanno sciolto la loro antica intesa; le similitudini deludono, inclinano alla visione e al delirio; le cose restano ostinatamente nella loro ironica identità: sono soltanto quello che sono."
Michel Foucault

      In un precedente post dedicato alle Metamorfosi visive, ho descritto succintamente quelle che ho definito le quattro vie della trasformazione fotografica, ovvero quattro possibili trasformazioni da applicare ad una foto di partenza nell'ambito del processo creativo seguito dall'artista. Nulla, tuttavia, è stato chiarito circa i criteri e le modalità con cui l'autore seleziona quell'immagine iniziale (sempre che un criterio esista o si manifesti in modo cosciente), lacuna che adesso cercherò di colmare in questo nuovo articolo. A tale scopo si rende propedeutico chiarire, fin da subito, che cosa rappresenta per me una fotografia: la identifico come una sorta di scintilla iniziale, un seme, un'immagine latente, ancora indefinita sul piano artistico, che richiede ulteriori interventi per poter rappresentare in maniera esaustiva ed efficace l'interpretazione o il significato principale che l'autore intende trasmettere.
      Herbert Marshall McLuhan, filosofo canadese che si è largamente interessato di teoria dei media, ci ha insegnato che ogni forma di "trasporto" non si limita soltanto a trasferire un messaggio, ma comporta anche una trasformazione del mittente, del ricevente e del messaggio stesso. Credo che questo argomento rappresenti un'ottima definizione dell'Arte, dal momento che per un autore è sempre di grande soddisfazione riuscire ad inviare un messaggio nella consapevolezza che questo comporti una crescita non solo per se stesso ma anche per chi lo riceve, e che la stessa opera prodotta (il messaggio) si presenti, retroattivamente, fluida e aperta a differenti interpretazioni, proprio grazie a questa sorta di motore immobile del cambiamento descritto da McLuhan, insito in ogni azione umana che sia dotata di una sufficiente qualità valoriale.

      Ma questa premessa in che modo si collega con quanto detto precedentemente circa la scelta dell'immagine iniziale nell'ambito del mio "Tetragramma Fotografico"? E' evidente che pur trattandosi solo di un seme, di un'entità in divenire, la scelta non potrà non avere un'importanza centrale e determinante all'interno dell'intera cornice creativa, il cui scopo è proprio quello di raggiungere la migliore mediazione possibile tra autore, opera e pubblico, proprio come indicato dall'analogia che ha chiamato in causa il filosofo canadese. Quindi, in estrema sintesi, la foto di partenza deve essere sufficientemente "agnostica" da potersi configurare come seme, ma anche robusta e determinante se si vuole garantire un accurato e proficuo percorso creativo. E qui entrano in gioco due nuove analogie: la prima con le "Parole in libertà" o "Paroliberismo", introdotte dal Futurismo, in cui le parole che compongono un testo non hanno legami sintattici e grammaticali fra loro e non sono organizzate in frasi e periodi, come riportato da Filippo Tommaso Marinetti nel Manifesto tecnico della letteratura futurista del 1912. Mentre la seconda analogia trova nella fotografia proprio uno dei migliori casi emblematici di "Ready-made": un anglicismo traducibile come "già fatto", "pronto all'uso", utilizzato in ambito artistico per la prima volta nel 1913 per caratterizzare un oggetto comune isolato dal suo contesto funzionale e "rifunzionalizzato" tramite il solo atto di selezione da parte dell'artista.
      In conclusione, il nostro "seme iniziale" si potrà caratterizzare, in estrema sintesi, per mezzo di due principali proprietà o caratteristiche, fortemente concatenate, al punto da apparire come un unico ente, ovvero l'immagine di partenza da rifunzionalizzare a partire da un insieme di "parole chiave": "archeo-oggetto" e "archeo-linguaggio"! Emerge così in modo netto che per il sottoscritto la fotografia iniziale, sia essa realizzata in maniera "tradizionale" o sintetizzata da algoritmi text-to-image, si trova ancora al di fuori dello "spettro artistico", dal momento che il suo processo creativo non è stato ancora definito in modo completo.
      A questo proposito possiamo sintetizzare succintamente questo rapporto (conflittuale?) tra fotografia e arte attraverso tre possibili vie di fuga:
1. La foto è solo un punto di partenza che darà origine ad una serie di "metamorfosi visive".
2. La foto non è un (s)oggetto ma un sistema di relazioni che attraverso un substrato linguistico mette in atto processi creativi con altre immagini, a partire da adeguati criteri di coerenza semantica e formale (il mio lavoro su LOW - Camera Grammar Exercises, ad esempio, è incentrato tutto sul tema delle relazioni in fotografia).
3. La foto, in mancanza di almeno uno dei due precedenti aspetti, è del tutto assente dalla dimensione artistica (quale migliore via di fuga!): questo mi offre la possibilità di dedicare energie creative, sempre di tipo visuale, facendo del tutto a meno di fotocamera e computer (si pensi, ad esempio, alla pittura astratta).

      Restano quindi sul piatto solo due opzioni per la fotografia: rappresentare solo un punto di partenza per ulteriori processi creativi, smettere di essere (s)oggetto per trasformarsi in un sistema di relazioni (cosa che richiede la presenza di un livello linguistico aggiuntivo per far si che emergano interpretazioni per l'opera). Il secondo aspetto mi interessa in modo particolare dal momento che trovo una interessante analogia col quel passaggio di paradigma che c'è stato tra la fisica classica che vede, ad esempio, un sasso solo come mero oggetto e la meccanica quantistica che lo interpreta, invece, sulla base di un sistema di relazioni. Si può comprendere meglio questo concetto analizzando succintamente alcuni punti chiave della teoria quantistica:
1. Dualità onda-particella: La fisica quantistica ci mostra che la materia e l'energia possono manifestarsi sia come onde che come particelle. Questo significa che la natura di un'entità non è fissa, ma dipende da come la osserviamo e dalle nostre interazioni con essa.
2. Sovrapposizione quantistica: Una particella quantistica può esistere in una sovrapposizione di stati multipli contemporaneamente. In altre parole, può assumere diverse proprietà allo stesso tempo, fino a quando non viene effettuata una misurazione che la costringe a collassare in uno stato definito.
3. Principio di indeterminazione di Heisenberg: Questo principio stabilisce che è impossibile conoscere contemporaneamente la posizione e la quantità di moto di una particella con assoluta precisione. Esiste un limite intrinseco alla nostra conoscenza del mondo quantistico.
4. Entanglement quantistico: Due o più particelle quantistiche possono essere intrecciate in modo tale che lo stato di una influenza istantaneamente lo stato dell'altra, indipendentemente dalla distanza che le separa.
      Tutti questi concetti quantistici ci suggeriscono che la realtà non è composta da oggetti isolati, ma da entità interconnesse e dinamiche, la cui manifestazione è influenzata in diversi modi dalla presenza stessa di un osservatore. Le proprietà di un'entità quantistica non sono definite a priori, ma emergono dalle sue relazioni con le altre entità e dall'ambiente circostante. In questo senso, l'interpretazione relazionale della fisica quantistica sostiene che ciò che chiamiamo "oggetto" è solo un modo conveniente di raggruppare relazioni tra entità quantistiche: questa breve incursione nel campo della fisica spero che possa chiarire meglio cosa intendo quando parlo di relazioni e di importanza dello spettatore anche in ambito di fotografie.

      Come sempre ho iniziato questo post con una citazione, tratta, in questo caso, dal libro: "Le parole e le cose" di Michel Foucault che mi è sembrata indicativa del rapporto che anche la fotografia ha sempre avuto con la realtà. La frase "le cose restano ostinatamente nella loro ironica identità: sono soltanto quello che sono" sottolinea l'impossibilità di coglierne la loro autentica essenza attraverso il linguaggio. Le parole possono solo descrivere le cose in modo approssimativo, lasciando intatta tutta la loro "ironia", ovvero la loro inafferrabile alterità. Possiamo sostituire linguaggio con fotografia per constatare che in questo senso, la rottura tra linguaggio (immagini) e realtà apre le porte a nuove forme di conoscenza e di esperienza. Se le parole non possono più rivelarci la verità assoluta, ci invitano a esplorare il mondo con sguardo nuovo, aperto all'ambiguità e alla molteplicità di prospettive: non è forse il modo migliore per vivere più intensamente un'autentica dimensione artistica?
Ti potrebbe anche interessare:
Metamorfosi visive: le quattro vie della trasformazione fotografica
LOW - Camera Grammar Exercises - 2
Solo un epifenomeno?
La fotografia tra Heidegger e Turing
La madeleine di Proust e l'immagine contemporanea
Dialogo platonico sull'AI
Artescienza

Commenti

Post più popolari