Luoghi Comuni: una Geografia dell'Anima contro l'Omologazione Contemporanea
“L'arte di narrare si avvia al tramonto. È sempre più raro imbattersi in persone che sappiano raccontare qualcosa come si deve. [...] È come se fossimo privati di una facoltà che sembrava inalienabile, la più certa tra le cose certe: la capacità di scambiare esperienze.”
Walter Benjamin
“La casa è il nostro angolo di mondo. È il nostro primo universo. È davvero un cosmo. Un cosmo in tutta l'accezione del termine.”
Gaston Bachelard
Nel cuore nascosto dei nostri paesaggi interiori si celano "luoghi comuni" che nessuna immagine potrà mai raccontare completamente. Eppure, paradossalmente, è proprio attraverso la fotografia che questi spazi possono tornare a parlarci, rivelando quella dimensione dell'esperienza che la velocità contemporanea ha reso invisibile. Cosa rende "comune" un luogo? Non la sua banalità, come potremmo pensare, ma piuttosto l'eccedenza di significato che lo rende trasparente al nostro sguardo abituato. I piccoli cimiteri affioranti sulla cresta di una collina, le chiese di periferia, i borghi dimenticati: questi spazi diventano invisibili non per povertà semantica, ma per la loro capacità di contenere troppa umanità sedimentata. L’utilizzo del bianco e nero in questi luoghi non è una scelta estetica, ma epistemologica: rimuovendo l'accidentale cromatico si rivela l'essenziale ontologico. Lo stesso contrasto tra luce e ombra si trasforma in una grammatica filosofica che articola le opposizioni fondamentali dell'esistenza: presenza e assenza, memoria e oblio, essere e non-essere. Il filosofo Marc Augé ha descritto la nostra epoca come dominata dai non-luoghi: spazi del transito anonimo come aeroporti, supermercati, autostrade, che riducono l'individuo a puro codice funzionale: passeggero, cliente, utente. Questi spazi cancellano le particolarità in nome dell'omologazione, producendo soggetti generici in ambienti standardizzati. I "luoghi comuni" operano invece una resistenza silenziosa a questa logica. Sono spazi che mantengono la propria identità proprio attraverso l'abbandono, che rivelano la loro intimità nella misura in cui vengono dimenticati. Dove i non-luoghi azzerano il tempo, questi luoghi incarnano una temporalità densa in cui passato e presente coesistono. Nelle fotografie di questi spazi dimenticati, l'ombra diventa protagonista. Non è semplice assenza di luce, ma presenza attiva che accarezza, protegge, nasconde. Come l'anima protegge i suoi tesori più preziosi, l'ombra avvolge gli oggetti offrendo rifugio alle emozioni. È il punto dove si manifesta quella che potremmo chiamare una spiritualità laica: non celebrazione di fede rituale, ma omaggio silenzioso alla fragilità umana, dove le pietre consumate dal tempo diventano finestre aperte su storie d'altri, archivi materiali di esistenze che hanno lasciato tracce indelebili. In questo silenzio denso, la pace è una forza che germoglia nell'anima capace di ascoltare il mormorio del vento e il pianto sommesso delle nuvole. Fotografare questi luoghi comuni non è documentazione, ma accostamento eterogeneo per costruire i vocaboli di una vera e propria sintassi dell'anima. Così come nella poesia il senso nasce dalle relazioni inaspettate tra le parole, allo stesso modo nella fotografia il significato emerge dall'incontro improbabile tra elementi diversi. Questa grammatica dell'ineffabile non obbedisce alle regole della logica discorsiva ma a quelle dell'intuizione poetica, che sa riconoscere nell'apparente casualità dell'accostamento la necessità profonda dell'affinità elettiva. Ogni immagine non chiude l'esperienza ma la spalanca, trasformando l'osservatore in co-autore del significato. Accanto ai luoghi comuni dell'essere, si potrebbe tracciare una mappa più ampia dell'esperienza spaziale contemporanea: i luoghi utopici (spazi dell'immaginazione progettuale che esistono nella tensione tra presente e futuro possibile), i luoghi dell'anima (spazi dell'esperienza interiore che trascendono la loro materialità fisica per diventare contenitori di trasformazione personale), gli anti-luoghi (spazi della negazione attiva che esistono in funzione di ciò che rifiutano). Come suggeriva Italo Calvino nelle pagine finali delle sue Città invisibili, la sfida è "cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio". I luoghi comuni fotografici sono esercizi di questo secondo tipo di sguardo: pratiche di riconoscimento e cura per ciò che, nel mondo contemporaneo, resiste ancora all'omologazione e mantiene la capacità di generare senso. Come possiamo ri-abitare poeticamente il mondo in un'epoca che ci trasforma in eterni passeggeri? La risposta fotografica emerge attraverso uno sguardo che restituisce spessore ontologico agli spazi dimenticati, trasformando l'atto fotografico in pratica di resistenza all'omologazione spaziale contemporanea e dove il bianco e nero diventa metodologia filosofica per distinguere l'essenziale dall'accidentale, rivelando l'anima dei luoghi che la modernità ha provato a cancellare. In questo gesto di rivelazione si compie quella piccola rivoluzione quotidiana: quella di chi sa ancora vedere l'invisibile e, vedendolo, lo salva dall'oblio.
Ti potrebbe anche interessare:
La Sintassi del VisivoPAX
Nel silenzio dei miei giardini segreti
L'arte ai tempi dell'effimero
Commenti
Posta un commento