Nel silenzio dei miei giardini segreti
“Ho appeso alla mia stanza il dagherròtipo
di tuo padre bambino: ha più di un secolo.
In mancanza del mio, così confuso,
cerco di ricostruire, ma invano, il tuo pedigree.
Non siamo stati cavalli, i dati dei nostri ascendenti
non sono negli almanacchi. Coloro che hanno presunto
di saperne non erano essi stessi esistenti,
né noi per loro. E allora? Eppure resta
che qualcosa è accaduto, forse un niente
che è tutto.”
Eugenio Montale, Xenia II, 13
“Sorrise alla domanda:
- Quali risorse deve contenere un giardino segreto?
- Essenzialmente miti - rispose senza troppo esporsi.
- ...e quanti?
- Quelli che riesci a trovare!
- Se non sono tutti? … e se sono più dei miei?
- Se ne trovi di nuovi, ecco che sei entrato davvero nel mio giardino segreto”
Francesco Menna
Frammenti di un dialogo interiore in bianco e nero. Rovine, isole, silenzi e lo sguardo enigmatico di una diavolessa. In questo lavoro esploro il labirinto dell’esistenza, la fragile bellezza del disincanto, la segreta melodia che pulsa nel cuore delle cose perdute. Un viaggio fotografico nell’anima, alla ricerca di una quiete ostinata e di una verità nascosta tra le pieghe dell’ombra.
Queste fotografie si presentano come enigmi che sfidano l’illusione di una rappresentazione oggettiva del visibile. Inseguono quell’essenza nascosta dietro l’apparenza effimera del mondo che, troppo spesso, si sottrae al nostro sguardo ottenebrato dall’abitudine. La precisione con cui definisco ogni elemento di quest’opera è come un vetro infrangibile, un tratto distintivo del mio stile, distante dalla gabbia asettica della realtà empirica. Ciò che più mi entusiasma è la possibilità di insinuare un dubbio, instillare una domanda o aprire una breccia nella granitica armatura delle certezze. E per fare questo, inizio a interporre dei diaframmi tra me e le cose, come se ponessi degli ostacoli lungo la trappola delle immagini usuali, sempre pronte ad offuscare l’essenza vibrante di ciò che ho desiderio di rappresentare. Far cadere questi veli ingannevoli è diventata ormai la mia ossessione. Solo così posso iniziare a cogliere l’accadere degli eventi nella loro originaria purezza, come un’epifania improvvisa, una folgorante rivelazione che possa scuotere lo spettatore dal torpore della consuetudine e dal dogma della normalità. Ed è per questo che, pur restando ancorato alla sostanza fotografica, lavorando con la luce e l’ombra o con la precisione dell’obiettivo, non offro mai copie banali del reale ma un punto di vista inesplorato e disorientante. Provo a praticare una sorta di epoché fotografica, una sospensione del giudizio, metto il mondo tra parentesi, liberandomi dalle scorie dei preconcetti. Vado alla ricerca di quel momento inafferrabile, quell’ irruzione dell’impossibile che si manifesta nel flusso banale del possibile, quella fessura tra spazio e tempo in cui l’inatteso si rivela in tutta la sua potenza straniante. Perché l’immagine, quella vera, quella che inseguo con ostinazione, non riproduce, ma crea. Non imita, ma genera. Svela il segreto delle cose con la loro sagoma indecifrabile, l’inafferrabile nucleo del reale come circostanza irripetibile e spiazzante, come apertura improvvisa verso un mondo nuovo che palpita nascosto dentro il mondo stesso. E poi c’è il silenzio. Molte di queste visioni sono abitate da un silenzio denso, sono situate nelle pieghe inesplorate del linguaggio, al limite estremo del dicibile. I miei oggetti, decontestualizzati, sottratti alla loro funzione utilitaristica, diventano testimoni paradossali dell’irrappresentabile. Ma nonostante questa ricerca dell’invisibile, questo anelito verso l’ineffabile, io parlo sempre di perdite, di nostalgia, di quell’assenza lancinante che il linguaggio stesso crea nel momento in cui nomina e definisce, cattura e imprigiona. La cosa è perduta, quel vuoto centrale, traumatico e impossibile da simbolizzare si fa distante, sottratta in maniera irrimediabile al nostro possesso, mentre la sua traccia persiste ostinata tanto nel silenzio metafisico della carta fotografica, quanto nel mistero inquietante di un’umile natura morta. Sussurri, sedimenti, echi lontani, sono le voci che mi arrivano alla coscienza, alternandosi in un flusso discontinuo all’interno di questo piccolo spazio labirintico che chiamo fotografia. Qualcosa di effimero e delicato, come un respiro sospeso, eppure denso di oscurità recondita, a volte persino impalpabile e inafferrabile come un fantasma. Presentati in sequenza, questi piccoli labirinti in bianco e nero non si offrono come singole affermazioni isolate ma dialogano tra loro in un linguaggio allusivo, stratificato e ambiguo, costruendo un percorso concettuale in divenire che si rivela attraverso la ripetizione di temi sottili e sotterranei. “Definire ciò che non siamo ci aiuta a capire meglio ciò che potremmo essere, ciò che veramente vogliamo” scriveva Montale, scavando nel cuore oscuro della condizione umana. Ebbene, questo nulla potenziale, questa vertigine dell’assenza, questa mancanza di risposte facili e rassicuranti si dilata fino a diventare tutto: l’intero campo dell’indagine esistenziale, l’orizzonte stesso della ricerca di senso. Il labirinto, pur oscuro, intricato e apparentemente senza via d’uscita, è l’essenza stessa delle mie immagini, rivelandosi, al tempo stesso, come luogo privilegiato in cui si svolge, inesorabilmente, il pellegrinaggio interiore verso il cuore misterioso della propria identità. Il labirinto, non tanto come spazio fisico delimitato, ma piuttosto come condizione strutturale in cui l’individuo è gettato, spaesato, inerme. E questa indeterminatezza è cruciale, perché ci sottrae violentemente alle coordinate rassicuranti del quotidiano, alle griglie anestetizzanti della routine, proiettandoci brutalmente in una sorta di atemporalità perturbante, dove l’individuo è finalmente costretto a confrontarsi, senza alibi né scappatoie, con il mistero del proprio essere-nel-mondo. La fotografia, in questo senso, possiede un potere straniante: la capacità di isolare il quotidiano dal flusso indistinto dell’esperienza, di estrarlo dal magma informe dell’abitudine, e di renderlo, così trasfigurato, oggetto di contemplazione intensa e di riflessione meditativa. Parallelamente a questa prospettiva più fenomenologica, rigorosa ed essenziale, mi piace considerare anche l’aspetto misterioso e inafferrabile dell’inconscio. Le immagini possono risuonare a livelli più profondi della nostra psiche, toccare corde recondite della nostra anima, evocare echi lontani di esperienze dimenticate. L’inconscio si rivela un inesauribile serbatoio di simboli archetipici, di emozioni primordiali, di memorie ancestrali che influenzano in modo sotterraneo la nostra percezione e il nostro sentire. Fotografare in questa prospettiva più obliqua e misteriosa, può significare captare tracce labili, indizi sfuggenti, frammenti di questo inconscio che pulsa sotto la superficie levigata della coscienza. E il bianco e nero, con la sua aura atemporale, con la sua capacità evocativa, spesso associata al territorio ineffabile della reminescenza, può amplificare questa risonanza subliminale, trasformando gesti in simboli potenti. Lo stesso uso avveduto di tecniche come la profondità di campo ridotta, che sfoca i contorni e dissolve i dettagli, o il ricorso al fotomontaggio, che sovrappone i piani e decontestualizza gli elementi, può contribuire in modo decisivo a creare quell’atmosfera onirica, sospesa e straniante che facilita l’emersione imprevedibile di fantasmi interiori e di memorie sepolte. Prendiamo una pietra, ad esempio. Primordiale. Immobile. Eccola, la materia bruta, l’inudibile balbettio del cosmo ridotto a forma. Davanti a lei, la mia ansia si coagula a sua volta in domanda. Cos’è questo peso muto che incombe sullo spazio bianco, asettico, di questa scena artificiale? E io, figura infinitesima, ai suoi piedi, mi perdo nella misura della mia stessa inconsistenza, della mia durata irrisoria contro la sua ostinata permanenza. La filosofia contemporanea chiede di dare voce alle cose, di ascoltare il sussurro muto della materia. Ebbene, questa pietra urla un silenzio assordante. Non è il marmo levigato, vestigia di ambizioni umane o la rovina architettonica con i suoi echi di civiltà defunte. È semplicemente essere. Essere pietra, essere peso, essere indifferenza. Indifferenza cosmica, geologica, minerale. Indifferenza che schiaccia ogni velleità antropocentrica. E quella piccola sfera bianca, immacolata, perfetta. Null’altro che un’intrusione geometrica, un’astrazione algida in questo teatro di materia grezza. È, per caso, la promessa di un ordine razionale in un mondo caotico? O è soltanto un altro oggetto, estraneo e muto quanto la pietra, ma con la fredda alterigia della sua forma perfetta? Forse è un ideale che si offre come alternativa alla gravità della materia, ma resta sospeso, distante, irraggiungibile. Subito dopo viene il cielo. Non un cielo rassicurante, non l’azzurro consolatorio delle religioni. Ma un groviglio di nubi oscure, una massa informe che incombe dall’alto. È il sublime naturale, certo, quella forza che ci sovrasta e ci annichilisce con la sua grandezza cieca. Ma è anche l’ombra lunga del dubbio, l’opacità del futuro, la nube tossica che si addensa sull’orizzonte del nostro tempo. Un tempo che non è più misurato in secoli o millenni, ma in catastrofi ecologiche, in estinzioni di massa o in derive tecnologiche incontrollate. Io, figura umana stilizzata, pura ombra ridotta ad un insignificante simulacro, cosa cerco in questo paesaggio minimale, in questa scena di silenziosa catastrofe? Cerco un senso? Un appiglio? Una ragione per questa mia effimera apparizione tra la pietra eterna e il cielo in tempesta? La stessa filosofia ha dismesso le grandi narrazioni, ha seppellito le metafisiche consolatorie. Ci ha lasciati soli, di fronte alla nuda realtà delle cose, alla opaca materialità del mondo. E questa foto è proprio un autoritratto in negativo. Non un’immagine di trionfo o di redenzione, ma una constatazione fredda, lucida, quasi crudele. Siamo qui, noi umani, creature infinitesimali, gettati nel bel mezzo di un dramma cosmico che ci trascende infinitamente. E di fronte alla pietra, all’immobilità del minerale, alla vastità oscura del cielo, non resta che interrogare il silenzio, ascoltare il battito sordo della materia, e trovare, in questa stessa desolazione, una forma di inattesa e austera bellezza. Perché la pietra non mente. E probabilmente, in questa consapevolezza radicale, in questa accettazione della nostra finitezza minerale, risiede una sagoma di liberazione, una vertigine che non è angoscia, ma sobria ed enigmatica quiete. Non è proprio questa accoglienza silenziosa della nostra essenza disarmonica, il preludio necessario per confrontarsi con le rovine non già della materia primigenia, ma delle fragili costruzioni umane erette a sfidare l’oblio? Ed ecco che su una di queste, un’insolita epigrafe allude ad una vittoria incisa a suggello di un’eco vana. Su quali mura cadute s’erge questo tempio dilaniato dal tempo? Guardo questa facciata, pallida come un’antica pergamena, ed ecco che mi appare grossolanamente come un’arca capovolta, un insieme di promesse sbiadite che si staglia contro l’imperscrutabile sfondo cinereo di una nuvola. Un simulacro pietrificato, crisalide svuotata di ogni trascendenza, reliquia di una fede perduta, chimera che cela nelle sue viscere l’inesorabile disfatta della nostra essenza effimera. Quelle parole latine dovrebbero ancorarci ad un’ultima speranza, essere un faro nella notte dell’esistenza. Invece vibrano solo come un’ironia metafisica. Come se la sentenza stessa fosse un sofisma ben cesellato, una consolazione applicata su una ferita insanabile. Le mura del corpo, fragili palizzate di carne e ossa, le mura della mente, intricate fortezze di pensiero in perenne assedio, le mura delle illusioni, castelli di cristallo che ci illudiamo di abitare per esorcizzare il terrore atavico del nulla. Con lancinante urgenza, una minuscola figura femminile, offerta e negata, simbolo di una verità che la chiesa vorrebbe nascondere dietro un vetro, ci riconduce alla concretezza palpabile, alla finitezza angosciante della nostra esistenza terrena, non è lei la vera essenza di ciò che siamo, al di là delle dottrine e dei dogmi? E intanto un angelo avanza, rapito in un’estasi enigmatica, eppure tormentata. Se l’anima si slancia verso l’Empireo, la carne la trattiene e la vincola al giogo del dolore, al fremito della gioia, al gelo della paura. Quell’estasi non è beatitudine o quiete ma una vertigine dell’abisso, di chi avverte l’estrema precarietà del proprio equilibrio instabile tra l’etereo e il terrestre. E, infine, quel masso monolitico… silenzioso, immane, imperituro. Ritorno della Pietra. Testimone millenario di ere geologiche, indifferente alle nostre suppliche, alle nostre chiese erette a sfida del nulla, alle nostre vane speranze di immortalità. Inconscio profondo, substrato atavico dell’essere, rappresenta ciò che perdura oltre la frana del tempo, ciò che è primigenio e immutabile. Ci osserva, con la sua immobile gravità, e ci rammenta la nostra transitoria esistenza di meteore luminose destinate a spegnersi nel buio cosmico. Al cospetto della sua presenza arcaica, la pieve appare ancora più evanescente, un castello di sabbia eretto sulle paludi del tempo. “Lictis exurgit templum victoria muris”… Forse l’unica vittoria concepibile è questa: l’ostinazione disperata di continuare a edificare architetture di credenze, a conferire un senso fittizio nonostante la consapevolezza della disgregazione, nonostante l’evidenza della nostra essenziale fragilità. È la vittoria dell’illusione vitale, la vittoria della voluntas credendi che si oppone all’assurdo ontologico dell’esistenza. Una vittoria amara, intrisa di malinconia, una conquista che porta in grembo il germe della sconfitta. Perché le mura, quelle vere, quelle interne, quelle che ci circondano e ci segregano dal vero essere, non cesseranno mai di crollare sotto l’impeto incessante del divenire. E noi, entità alate e terrene, continueremo a edificare architetture di sabbia, in un eterno e struggente anelito di salvezza. E invero, cosa resta di quegli edifici di illusioni, quando la vittoria si rivela vana, e l’illusione stessa si dissolve, lasciando dietro di sé solo l’evidenza desolante di frammenti sparsi, di macerie silenziose, dove la vita, spogliata di ogni ambizione trascendente, persiste nella sua forma più elementare e tenace? A resistere, amara ironia, sarà soltanto il marmo frantumato. Sinfonia di rovine in bianco e nero, senza più eco di gloria templare, ma solo tracce, schegge, vestigia di un’architettura crollata. Eppure, persino in questo teatro di detriti, la vita prosegue, pullula, incongrua, ostinata, repellente. Insetti. Non angeli alati, non figure sublimi, ma creature umbratili, filosofi striscianti che si muovono sicure tra crepe e macerie, testimoni silenziosi della nostra fatua ambizione, della vana pretesa di erigere strutture perenni in un universo che conosce solo divenire e dissoluzione. Quel calice di cristallo, posato lì, tra le pietre, con studiata noncuranza… beffarda nota di lusso, residuo di un fasto ormai spento, in questo contesto di afflizione. Vuoto. Significativamente vuoto. Simbolo di desideri inappagati, di promesse infrante, di una sete esistenziale che non trova ristoro. Monito sulla vacuità delle nostre conquiste, sulla fragilità delle gioie, offerte in sacrificio al saccheggio corrosivo dell’esistenza. E l’arco spezzato, portale incompleto, promessa non mantenuta. Varco incerto. Verso il nulla? O verso quel inconscio che riemerge, larva di insetto, insinuandosi tra le crepe del mio io cosciente che rivela la precarietà delle costruzioni mentali e delle nostre rassicuranti narrazioni. Il marmo. Freddo, inerte, eternamente muto. Eppure narra una storia, anche nel suo silenzio. Storia di caduta, di frammentazione, di perdita. Come la mia anima, lacerata dalle mille scissioni della vita, dai traumi, dalle delusioni, dalle miserie quotidiane, piccole e grandi. E gli insetti… non più solo creature ripugnanti da eliminare, come vorrebbe la ragione. No, ora li vedo come dei messaggeri di una verità scomoda, incarnazione della mia essenziale fragilità, della mia ineluttabile mortalità. Mi osservo in questa immagine riflessa, in questo specchio distorto, e non trovo né trionfi né glorie ma scorie e detriti. Questa è la vera essenza della condizione umana: non eroi alati, non costruttori di templi immortali, ma insetti tenaci che sopravvivono tra le rovine frugando tra le macerie del tempo. Eppure… persino in questa visione desolante, vibra una oscura vitalità. La vita che si ostina a germogliare nel deserto, tra le pietre, sotto lo sguardo indifferente del cielo nero. Cieca determinazione a persistere. Può darsi che la vera vittoria sia proprio questa: imparare a vivere, sopravvivere, fiorire tra le rovine, con la lucida e dolorosa consapevolezza della finitezza. Accettare disgregazione e fragilità come forma di bellezza, perversa consolazione. Perché anche la rovina, in fondo, possiede una verità, una sua malinconica poesia che si fa luce lentamente, nel buio denso e quasi esitante. E nel chiaroscuro incerto emerge ancora la sagoma ferita di una chiesa che il mio stesso occhio cerca di decifrare. Non è più un baluardo che si erge fiero, ma una creatura ormai sussultante. Opera di un terremoto, eco sordo della terra che trema, di una natura che ancora una volta si mostra indifferente alla nostra fragile costruzione di certezze. Come un vulcano con la sua forza primordiale e il fuoco che ribolle sotto la pelle del mondo. Il tetto dell’edificio è sparito, o meglio è diversamente presente ai piedi della chiesa, ammasso informe di macerie. Il cielo doveva essere limite e protezione, invece… è tornato alla terra, alla sua origine minerale. La sua funzione ridisegnata nel caos del crollo. Non più riparo, ma cumulo di pietre, soltanto e ancora pietre che non mutano, resistenti al nostro desiderio di trascendenza. Per puro istinto ho cercato un rimedio, un’illusione ottica, un prestito da un elemento estraneo all’immagine che ho lasciato fluttuare nel vuoto della fotografia, in quel nero siderale che inghiotte ogni cosa. Un innesto incongruo che non poggia su nulla di solido, saldatura in un universo che non conosce equilibrio, e che ho usato solo per incidere una mia personale epigrafe: “Quid pendet leve, a muris solutum, super aethera silens?”. “Cos’è che pende leggero, staccato dalle mura, silenzioso nel cielo?” Un indovinello che non attende risposta. Perché la risposta è in quella stessa sospensione. La sospensione del tempo, misurato dall’orologio che non segna ore terrene, la sospensione del significato, la leggerezza di una nuvola solitaria che danza nel cielo, la stessa fragile leggerezza di un’illusione. Ciò che pende leggero, non ancorato a mura, è fragile nel cielo: “Memento leve quod pendet, non muris firmatur, super aethera fragile”. Ennesima iscrizione latina che mi riporta al precedente tentativo di dialogo con il silenzio e la fragilità: “Lictis exurgit templum victoria muris”. “Dalle rovine delle mura sorge, vittorioso, questo tempio”. Lì, quella volta, nell’altra foto, c’era una vittoria, una resurrezione che nasceva dalle macerie. Qui c’è una domanda aperta sul vuoto, lì c’era un tempio che si ergeva, qui un orologio bloccato nell’attimo fuggente che pende sul nulla. Come per l’arca capovolta della precedente immagine, viaggio e immersione nella coscienza, anche qui c’è lo stesso invito a guardare dentro, a cercare non la vittoria ma piuttosto la fragile bellezza di ciò che resta. Questa immagine, in fondo, è solo un déjà vu. Come se tornassi sempre nello stesso punto per interrogare di nuovo lo stesso silenzio. Ma ecco l’atto successivo di questo dramma interiore, lo specchio che distorce e insieme rivela. Le fattezze sono quelle di una giovane regina, la foto di una donna con le corna. Non più l’angelo in estasi e neppure l’offerta negata di una verità celata. Ma la tentazione esplicita, la provocazione, l’eco beffarda della ragione mentre si frantuma. La chiamano follia, diavolo, seduzione, abisso. Ma se fosse lei, la voce scomoda, a sussurrare le verità più profonde? Se fosse nello sguardo obliquo del demoniaco che si cela la lucidità più tagliente? Il grillo sulla spalla è più che un dettaglio incongruo, ennesima dissonanza in questo concerto di contraddizioni. Insetto terrestre radicato al suolo, e poi le corna, slancio verso l’alto. Anima e corpo, ragione e istinto, sublimazione e abiezione, intrecciati in un nodo inestricabile. La cifra di questa visione è l’impossibile coesistenza degli opposti, una lacerazione insanabile dell’essere. Ritornano gli insetti striscianti… ma ora lo sguardo è mutato. Non più solo emblemi di fragilità e caducità. Ora, sotto la luce obliqua dello sguardo demoniaco, paiono acquisire nuove valenze. Agenti attivi di verità scomode, messaggeri di un’intelligenza istintiva e sotterranea prendono il posto di detriti psichici. Creature amplificate a dismisura che incarnano la forza bruta dell’inconscio, pulsioni aggressive e sessuali contro cui l’Io instaura una lotta incessante. Nell’impossibilità di esprimere liberamente la nostra vera natura in un mondo repressivo, non possiamo che abbandonarci alla follia: la porta per accedere all’inconscio, come dicevano i filosofi. Cortocircuito nella rigida griglia della ragione che permette a pulsioni, fantasmi e verità rimosse di affiorare. E in questa fotografia la diavolessa è proprio la personificazione di questa irruzione dell’irrazionale. Scardina la facciata della normalità, svela la precarietà delle costruzioni mentali, la vacuità delle certezze. La realtà, attraverso il suo sguardo folle, si rivela contraddittoria: fratture, dissonanze, accostamenti stranianti. Lei, al centro di questo vortice, col suo sguardo penetrante e accusatorio, mi interroga, mi sfida costringendomi ad un confronto con le mie zone d’ombra nell’angoscia esistenziale generata dal dubbio. Nelle sue Meditazioni Metafisiche, Cartesio, il filosofo della Ragione, ipotizzò un genio maligno, «potentissimo e astutissimo, che impiega tutta la sua industria ad ingannarmi»: una grottesca irruzione nello spazio ordinato, pronto a mettere in discussione la veridicità delle percezioni. Michel Foucault, esplorando gli abissi della follia, tracciò una mappa tra la ragione e il suo controcanto oscuro: la follia è sorgente primigenia di non-senso, alba caotica da cui emerge l’opera. Sogno ed errore troveranno mai una loro redenzione nell’editto del soggetto pensante: «io che penso non posso essere folle»? Ma il cogito cartesiano, sussurra Jacques Derrida, non vacillerà neppure di fronte all’abisso della follia: anche se folle, il mio pensiero persiste tenacemente, restituendo a ragione e pazzia una radice comune, una coreografia eterna, senza più nessuna separazione nella tela del discorso. Per Derrida, è proprio nel linguaggio, nelle sue pieghe ambigue, nelle contraddizioni scintillanti, nei molteplici significati, che pulsa il cuore selvaggio della follia. Un insano furore che non consola, non rassicura, ma perturba e disorienta. Può darsi che in questo spaesamento si nasconda una conoscenza più autentica e radicale che nasce dal confronto diretto con l’abisso, contraddizione essenziale della condizione umana. E le diavolesse, in fondo, sono lo specchio che restituisce soltanto un’immagine scomoda, il ritratto impietoso di me stesso che la ragione vorrebbe nascondere, ma che la fotografia ha il compito di rivelare anche a costo di apparire demoniaca. Perché, a volte, nello sguardo “deviante”, si celano proprio le più autentiche intuizioni, ma è in quegli stessi occhi, intensi eppure velati di malinconia, in quella fragilità adombrata dietro la provocazione, che si nasconde, paradossalmente, anche una profonda, fragile e delicata umanità. Ed è proprio qui che ritrovo una verità più intima e inaspettata del mio stesso enigma interiore. Emerge prima debolmente, come una specie di melodia lontana e indistinguibile, percorre poi i sentieri sotterranei della coscienza, fino ad affiorare in forma di parole prive di una trama visionaria, che si richiudono su se stesse abbandonandosi ad una sorda musicalità in cui tutto, lentamente, si dissolve…
«Non conformista, emotiva e audace,
Fragile guerriera, ribelle e tenace,
Maschera d’inganno, mistero celato,
Inconscio profondo, segreto inviolato.
Gioco di contrasti, enigma da svelare,
Tra l’angelo caduto e la donna da amare.
Enigma indecifrabile, simbolo strano,
Donna complessa, vero e proprio arcano.»
Arcano, sì. Perché in questa indecifrabile complessità, in questo intrico di contrasti, in questo mistero celato dietro una maschera d’inganno, si annida l’essenza più vera e tormentata della condizione umana, quel segreto inviolato che la fotografia, ostinatamente, continua a inseguire e sondare, frammento dopo frammento lungo questo intimo dialogo interiore. E quel precipizio dell’anima che si rivela nello specchio ambiguo della diavolessa, irrompe obliquo, vertiginoso e inesorabile con la stessa forza di un vulcano. Alla vista si presenta attraverso una lunga e netta linea diagonale che spacca in due lo spazio, dividendo il cielo dalla terra. La pendenza del vulcano crea una tensione dinamica, una furia ascensionale, quasi una sfida alla gravità, alla stabilità orizzontale del mondo. Una linea che non rassicura mentre si slancia verso l’ignoto, con un’audacia che è quasi tracotanza. Il Vesuvio. Non nella sua classica iconografia, neppure nella sua più consueta e rassicurante veduta frontale da cartolina. Ma colto di sbieco, di sorpresa, mentre si innalza ripido, quasi a voler celare la sua intima essenza, la sua forza primordiale che è anche pericolosità latente. Il vulcano non ha bisogno di mostrarsi nella sua interezza, si rivela, invece, progressivamente, come un segreto che si dispiega nella sua complessità formale. Forza è la prima parola che si affaccia tra i miei pensieri. Potenza tellurica dalla pelle di fuoco, veemenza primigenia, impeto distruttivo e creatore al tempo stesso. Il Vesuvio non è affatto una montagna pacifica, gigante dormiente, potenza inespressa, serbatoio di energia latente, è sempre pronto a risvegliarsi per manifestare la sua incontenibile irruenza. Ad attrarmi di più però è la sua massa scura e compatta, la texture aspra, la pendenza ripida e poco rassicurante che ricorda la precarietà delle nostre esistenze di fronte alle potenze cieche della natura. Un luogo che porta in sé la memoria di catastrofi passate e la promessa di future eruzioni. Il cielo senza slancio, uniforme e indistinto, mette in scena con la sua grigia teatralità quel contrasto con l’audace dinamismo del vulcano: è su questo piano che risiede la forza enigmatica dell’immagine, la sua tensione interiore, la sua capacità di evocare la perenne dialettica tra spirito e materia, finito e infinito, tra immobilità e movimento. E subito si presenta al cospetto della mia mente il fantasma di Giordano Bruno. Lui, il Nolano, fanciullo cresciuto all’ombra di questa montagna di fuoco, ne avrà scrutato le pendici e respirato l’odore sulfureo e chissà se, contemplando questa stessa pendenza, non avrà intuito, proprio nello stesso identico luogo, un simbolo della dinamica incessante del cosmo e una sfida radicale al pensiero immobile. Bruno, che osò pensare ad un universo infinito, in perenne espansione, in questa visione obliqua, non sembra suggerire proprio la perdita del centro per abbracciare la molteplicità infinita delle prospettive possibili? La pendenza è come una fuga, una deviazione dalla norma, e Giordano Bruno, in fondo, fu un pensatore obliquo, deviante, estraneo alle geometrie rassicuranti e ai confini angusti del sapere codificato. Il suo pensiero, come il vulcano, rappresenta idealmente una minaccia per la tranquillità illusoria del sapere ufficiale, con la sua capacità di aprire abissi nella sconfinata regione del dubbio. Due figure audaci, simbolo e allegoria di forze primordiali, dirompente potenza del pensiero e dell’infinito che si cela nel finito. E, così, se in questa foto spoglia ed essenziale, ritrovo l’eco silenziosa di quella vertigine metafisica che ancora oggi, a distanza di secoli, continua a scuoterci e illuminarci con la sua tenebrosa e folgorante potenza, nella successiva immagine del Vesuvio, mi sembra di cogliere nel precipizio di pietra non più l'ascesa, ma la caduta. Caduta... la parola. La parola... caduta fa eco nella mia mente, sospesa nel vuoto. Quel suo abbandono mi ricorda il “complesso di Icaro” di cui parlava Gaston Bachelard: un impulso ascensionale che paradossalmente ci porta a cadere. Non è forse questa la condizione dell'uomo contemporaneo? Eppure, nel suo precipitare c'è una forma di libertà che mi commuove. Søren Kierkegaard diceva che l'angoscia è una vertigine di libertà. E se invece fosse un angelo? Un corpo che ha perso l'appiglio celeste in un momento di verità disarmante? Penso a Lucifero, l'astro del mattino, punizione e metamorfosi, passaggio necessario per esperire la pienezza dell'esistenza, non solo luce e ascesa, ma anche ombra e discesa. Un essere in transito, limbo tra innocenza e conoscenza, tra aspirazione e realtà. La figura che cade – o forse vola? – mi ricorda intensamente il concetto heideggeriano di “gettatezza” (Geworfenheit), esplorazione delle profondità, scavo nelle zone più oscure dell'anima, alla ricerca di una nuova forma di radicamento. Siamo tutti, in fondo, caduti nel linguaggio, nella cultura, nella semplice esistenza. E questo volo verso la terra ci definisce, ci plasma, ci costringe ad un confronto con la mancanza, con il desiderio. Ma c'è anche la bellezza struggente di un gesto sospeso, di una verità che si rivela nella sua nudità, nel coraggio di aprire le ali, anche se sappiamo che potrebbe non servire essere l’ultima volta. È questo il compito che mi sono dato: catturare i momenti di sospensione, le cadute silenziose, le fragilità esposte, per ricordarci della nostra comune condizione di esseri gettati in un mondo tanto meraviglioso quanto enigmatico. E se questa caduta silenziosa ci ricorda un mondo ambiguo, ecco apparire, quasi a incarnare questa condizione sospesa e precaria, ancora un angelo. Ancora in primo piano. Ancora una volta come presenza inattesa e incongrua per un paesaggio così desolato. Sfocato. Respinto ai margini della visione. L’io fotografo sembra non averlo neppure sfiorato, o almeno non avergli concesso quella centralità che meriterebbe. Fantasma, apparizione sfuggente che si perde nella profondità di campo, che cede il passo agli elementi secondari dello sfondo. Non c'è riparo né tregua. La gloria celeste, la tromba squillante, il coro celestiale. No. È lì. Ancorato a questa terra come un antico reperto dimenticato. Le ali sembrano zavorra, aggiunta incongrua, orpelli poco comprensibili tra i palazzi anonimi. Rettangoli di cemento, gabbie di solitudine per esistenze uniformi, alberi malconci, scheletri vergognosi della loro stessa esistenza, rami che si protendono verso un cielo privo di promesse. Non-luogo a procedere… colori spenti, voci fievoli. Solo un velo di indifferenza con ali di angelo. Chi di voi è il fantasma? La città? Noi? Le ombre che si aggirano senza meta? Superata la furia incandescente del vulcano, la lava che minacciava di inghiottirci, la potenza distruttiva che ci sovrasta, ecco che ci ritroviamo rifugiati in una fortezza di grigio. Le diavolesse dallo sguardo malinconico di qualche foto fa si sono mimetizzate nel grigiore del quotidiano, non hanno certo bisogno di zolfo e fiamme. Il loro trucco più sottile è renderci invisibili a noi stessi, annegati in una palude di indifferenza. Non fosse che per quelle ali di angelo… Resistenza silenziosa. E insidiosa. L'angelo è lì. Nonostante tutto. Forse è solo persistenza e speranza o potrebbe essere illusione, proiezione del desiderio, fuga consolatoria dalla realtà, con lo sfondo della foto ci riporta alla concretezza di un’esistenza terrena. In questa tensione irrisolta tra apparizione celeste e realtà terrena, si annida l’enigma dell’immagine. Un angelo che non conforta, non rassicura, non redime, costringe solo a guardare più a fondo, ad interrogare il silenzio e cercare un senso che si rivela in quel giardino segreto che si nasconde anche nel paesaggio più brullo. Quello che resta è la vertigine del dubbio, l’enigma irrisolto, lo specchio distorto della nostra intima, irredimibile umana condizione che, facilmente, può essere reso da un salto apparente, da un brutale scarto di prospettiva. Dalle ali spiegate, sfocate, di un’entità indefinita, alla microscopica frenesia di un’esistenza brulicante. Sembrerebbe un abbandono del cielo per la terra, dello spirito per la materia, dell’universale per il particolare, eppure… eppure la vertigine persiste. Non la vertigine dell’altezza o dell’infinito spalancato dalle ali, ma, nuovamente, l’ombra netta e implacabile, di questi piccoli esseri che si muovono su un palcoscenico improvvisato. Cosa sperano? O cosa cercano? Lo stesso senso di cui l’angelo pareva orfano, lo stesso conforto che non riusciva a donare. Eppure, in questa scala ridotta, in questa prospettiva ravvicinata, l’enigma non si dissolve, anzi, si acuisce avvertendo la stessa frattura, lo stesso dualismo, nella forma più subdola e intima. Non più l’opposizione tra l’etereo e il concreto, ma la precarietà dell’esistenza esposta in ogni dettaglio. Questi insetti, nella loro affannosa ricerca, non sono forse anche loro fantasmi destinati a svanire senza lasciare traccia, proprio come l’angelo nella città? Chi osserva questi insetti, non prova forse lo stesso senso di estraneità, di distanza incolmabile che provava di fronte all’angelo? Sigmund Freud parlava di “perturbante”, di quell’inquietudine che nasce dall’incontro con qualcosa di familiare e allo stesso tempo di estraneo. L’angelo e gli insetti: due manifestazioni diverse di una stessa angoscia, di una stessa domanda che non ammette risposte. Entrambi ci confrontano con il limite della nostra percezione, con la fragilità del nostro essere nel mondo privo di una verità rassicurante. In questa sospensione irrisolta si cela la scintilla di una consapevolezza più profonda, bellezza oscura e inafferrabile, che ci costringe a guardare ancora il silenzio di queste figure enigmatiche dove si annida la verità più autentica della nostra condizione. Dopo gli insetti striscianti, dopo il labirinto oscuro dell’esistenza, il vulcano, le macerie del tempio con la fredda immobilità della pietra, dopo lo sguardo enigmatico delle diavolesse… finalmente un giardino. Ma segreto. Nascosto. Inaccessibile allo sguardo superficiale. Non è un giardino rigoglioso o esposto alla luce del sole. No, è un giardino interiore, celato nelle pieghe recondite dell’anima, un hortus conclusus della psiche, protetto da mura invisibili, custodito da silenzi impenetrabili. Un luogo altro, parallelo al labirinto, eppure intimamente connesso ad esso. Se il labirinto è la mappa intricata delle incertezze, delle paure, delle domande senza risposta, il giardino segreto è la promessa di una risposta celata, di una quiete ritrovata, di un senso inatteso che germoglia nel cuore stesso del caos. Labirinto e giardino. Due facce della stessa medaglia. Il labirinto, in negativo: smarrimento, disorientamento, percorso tortuoso senza apparente via d’uscita. Il giardino, in positivo: ritiro, contemplazione, rifugio silenzioso dove le energie si rigenerano, dove il pensiero può vagare libero, dove le emozioni trovano dimora. Non uno spazio aperto a tutti, ma un luogo intimo, personale, quasi inviolabile. “Segreto”. Perché? Quasi certamente perché legato al limite estremo del linguaggio, a ciò che sfugge alla presa delle parole, a ciò che si manifesta in forma di intuizione e presentimento. Il segreto è ciò che resiste alla verbalizzazione, ciò che si annida nelle zone d’ombra della coscienza, che pulsa al confine tra dicibile e indicibile. E la fotografia può essere la chiave per accedere ai giardini segreti, per svelare con l’immagine, il mistero che vi dimora. Segreto come la dimensione interiore, sempre parzialmente indefinibile, inafferrabile, fluida, in perenne divenire. Spazio interno, paesaggio psichico che si estende al di là dei confini rigidi dell’Io cosciente, territorio inesplorato popolato da simboli, fantasmi, desideri inconfessabili. Un luogo dove le rovine dell’esperienza si trasformano in humus fertile, dove gli insetti, non più solo messaggeri di rovina, possono farsi anche portatori di una vita sotterranea, di una bellezza inattesa che si cela tra crepe e macerie. Non fuga dalla realtà o evasione consolatoria ma immersione profonda nella realtà più vera, più intima e nascosta. È esplorazione del paesaggio interiore, ricerca di un equilibrio precario tra luce e ombra, tra rovina e rinascita, tra silenzio e sussurro. È la scoperta che anche nel cuore del labirinto può fiorire, inatteso, un giardino percepibile solo con l’attenzione silenziosa dell’anima. Lettere bianche sulla neve, musica muta fatta di melodie inespresse. Ancora una volta un contrasto che non è solo formale, ma anche concettuale, emotivo, simbolico: la contrapposizione tra arte e natura, artificio e spontaneità, tra ordine e caos, silenzio e suono, tra morte apparente e vita latente. Un giardino segreto di musica muta che attende di essere interpretata, eseguita e trasformata in un’esperienza viva.
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