Storia della Follia


“La filosofia non si risolve nel disegno di un sistema ma è proiettata verso tutto ciò che nel sistema non può essere contenuto, esponendolo a un debito di senso che non può mai essere del tutto risarcito.”
Jean Hyppolite

“Io sono Nessuno! Tu chi sei?
Sei Nessuno anche tu?
Allora siamo in due!
Non dirlo! Potrebbero spargere la voce!
Che grande peso essere Qualcuno!
Così volgare — come una rana
che gracida il tuo nome — tutto giugno —
ad un pantano in estasi di lei!”

Emily Dickinson

      Michel Foucault, nel suo celebre studio sulla follia, propone una riflessione sul rapporto tra ragione e pazzia, focalizzandosi anche sul ruolo delle Meditazioni Metafisiche di Descartes. Secondo Foucault la follia rappresenta una condizione preliminare di non-senso da cui emerge l'opera stessa, la quale non può essere ridotta allo stato psicologico dell'autore. Foucault sostiene che, a partire dall'età classica, la filosofia ha usato il dubbio cartesiano come strumento per definire l'identità della ragione, escludendo la follia. Mentre il sogno e l'errore sono superati attraverso verità universali, la pazzia viene esclusa basandosi sulla posizione del soggetto pensante: "io che penso non posso essere folle". In risposta ad alcune considerazioni di Foucault, Jacques Derrida sostiene invece che Descartes, nelle Meditazioni Metafisiche, non esclude la follia, ma la include come condizione interna attraverso l'ipotesi del Demone Maligno. Per Derrida, il Cogito cartesiano resta valido "anche se io sono folle", cercando così di recuperare l'origine comune di ragione e follia. Derrida contesta l'idea che sia possibile scrivere una storia della follia dal punto di vista della follia stessa, come Foucault sembrava suggerire, sostenendo che ragione e follia sono intrinsecamente legate e non possono essere completamente separate nel linguaggio. Per Derrida, il linguaggio stesso contiene elementi di follia nella sua struttura, attraverso ambiguità, contraddizioni e significati multipli.

      «I giorni scorrono come gocce di pioggia su un vetro rotto. A volte limpidi, altri offuscati, ma sempre e soltanto da qualche parte dietro questo vetro. Il silenzio urla. E' più lacerante del vento al punto che vorrei strapparmi le orecchie! Ma come si fa a sfuggire a un rumore che viene da dentro? Respiro! Respira. Uno, due, tre… che non ha mai funzionato.
C'è bellezza nel mondo, la vedo a tratti. Un fiore nel cemento, il sorriso di uno sconosciuto. Ma è come guardare immagini attraverso un caleidoscopio rotto che non so ricomporre. La mia voce, ho paura che se apro la bocca, quel po' che è rimasto di me potrebbe saltar fuori e disperdersi nell'aria.
Sono dannatamente stanca. Di fingere, di provare di esistere. La speranza è il lusso che non voglio permettermi. Mi aggrappo all'idea che un giorno i pezzi combaceranno. Oggi però vedo solo linee spezzate, punti sconnessi, grovigli di pensieri che non portano in nessun dove.
Respiro. Due, uno, tre…»



      «Sono un fenicottero rosa, di quelli che si incontrano nei libri colorati. Non ricordo più come è iniziato. Ho ali di sangue e di seta, come petali di fiore, e un cielo che brilla come fuoco nel buio. C’è solo del bianco qui... un vuoto inesauribile che mi divora. Cammino sull’acqua mentre i piedi ne sfiorano la superficie senza affondare. E poi mi dimentico... chi sono, dove sono, rinuncio a tutto e tutto crolla nella gabbia senza sbarre. Apro gli occhi e questa stanza si infiltra ancora una volta nella testa e nel cuore. Mi schiaccia. Le pareti si stringono e il silenzio mi soffoca. Mi hanno detto che da domani non posso più essere un fenicottero. Non devo volare, anche se le mie erano solo ali di sogno. Un giorno non ci sarà più dolore. Vado dove le ombre non possono seguirmi. Chiudo gli occhi.»


      «Sussurro al mio riflesso, oltre il vetro in frantumi: chi sei? Io sono rimasta indietro, prima che lo specchio si infrangesse, prima che la mia anima si sbriciolasse in mille schegge taglienti. Il tempo scorre come sabbia tra dita rugose, contorcendosi come il serpente che divora i ricordi. Chi sono in questo fluire incessante? E chi è lei, quella dagli occhi profondi che mi fissano dalla parte rotta dello specchio? Nella mia follia c'è una chiave per evadere, vago libera per labirinti di pensieri oltre questa desolata stanza.
A s c o l t a… le senti? Quelle voci che sussurrano, che cantano, che gridano? So che non puoi udirle, ma per me sono più reali di qualsiasi cosa. In questo caos apparente, trovo una sinfonia cosmica che solo la mia mente frantumata può comporre. Un coro di spettri, un'armonia amara, una melodia oscura. In questa solitudine di presenze invisibili, in questo profumo acre di follia, in questo silenzio di voci, nel paradosso ripetuto, vedo finalmente la mia pace amara.»



      Nel primo monologo ho immaginato di rappresentare un comune disagio mentale, una forma severa di depressione. Un disturbo diverso dall'idea di nevrosi o fobia, caratterizzato da comportamenti più compulsivi che ho invece utilizzato per il monologo della giovane donna che si crede un fenicottero. Il terzo monologo suggerisce invece il comportamento di una persona affetta da schizofrenia. L’ultima immagine di questa breve raccolta, mette invece a fuoco quei comportamenti emotivi persistenti e disadattivi che impediscono addirittura di pronunciare qualsiasi parola. Michel Foucault ha svolto un’indagine acuta ed accurata sul rapporto tra linguaggio e follia. Iniziando col far tacere la voce dei folli si è provveduto prima ad emarginarli e poi a delegittimarli. Eppure il linguaggio della follia potrebbe offrire una prospettiva interessante rispetto alla razionalità dominante, una forma di resistenza al potere costituito: bisogna continuare a scavare nel silenzio imposto alla follia per recuperarne voci e prospettive.
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