L'arte ai tempi dell'effimero


“arte è tutto ciò che gli uomini chiamano arte”
Dino Formaggio

      Cari amici, cultori dell'arte e del pensiero critico, siamo giunti a un punto cruciale. Un punto in cui l'arte, quella che un tempo faceva vibrare l'anima e stimolava il cervello, sembra essersi trasformata in un gioco di prestigio per ricchi annoiati. Ma andiamo con ordine, dal momento che ci sarebbe da sviscerare un bel po' di paradossi!

      Partiamo da un presupposto tanto banale quanto scomodo: definire l'arte è un'impresa titanica, forse impossibile. Come diceva Dino Formaggio, "arte è tutto ciò che gli uomini chiamano arte". E fin qui, tutto bene. Il problema sorge quando gli "uomini" in questione sono un manipolo di galleristi, critici e collezionisti che decidono che un water rovesciato o una tela bianca imbrattata di vernice sono capolavori da milioni di euro.
      Ora, non fraintendetemi. L'arte concettuale, la provocazione, l'idea che si fa materia (o anche no), tutto questo può essere affascinante, stimolante, persino geniale. Ma quando l'idea latita, quando il pensiero è sciatto e banale, e l'unica cosa che rimane è il prezzo esorbitante, beh, allora siamo di fronte a un problema. Un problema estetico, filosofico e, diciamolo, anche un po' etico.

      Come ci ricorda Paolo D'Angelo nel suo "Introduzione all'estetica analitica", la filosofia analitica dovrebbe analizzare i concetti fondamentali delle nostre pratiche. E l'arte, piaccia o no, è una pratica umana fondamentale. Ma di analisi, nell'estetica contemporanea, se ne fa ben poca. Si preferisce, come direbbe Russell, dividere e comandare: affrontare problemi specifici, circoscritti, magari legati a una singola forma d'arte. Così ci ritroviamo a disquisire sull'ontologia dell'opera musicale o sul significato della rappresentazione nella pittura, mentre l'elefante nella stanza –ovvero, che cos'è l'arte oggi?– continua a scorrazzare indisturbato.

      E a proposito di elefanti, come non citare Arthur Danto e le sue famose Brillo Boxes di Andy Warhol? Scatole di detersivo identiche a quelle del supermercato, elevate al rango di opere d'arte. Danto ci dice che a fare la differenza è il "mondo dell'arte", un insieme di teorie, idee e storia che ci permette di vedere quelle scatole come qualcosa di più di semplici contenitori. Ma, mi chiedo io, questo "mondo dell'arte" non rischia di diventare una bolla autoreferenziale, un circolo chiuso dove pochi eletti decidono cosa è arte e cosa non lo è?

      Perché, diciamocelo chiaramente, una volta gli artisti lasciavano qualcosa di grandioso per tutti, qualcosa che attraversava i secoli e le generazioni. Pensate alle cattedrali gotiche, ai capolavori del Rinascimento, alle sinfonie di Beethoven. Oggi, invece, cosa stiamo lasciando ai posteri? Installazioni che durano il tempo di una mostra, performance effimere, oggetti che valgono milioni ma che non comunicano nulla, se non la vacuità del nostro tempo?

      E qui entra in gioco un altro personaggio chiave, George Dickie, con la sua teoria istituzionale dell'arte. Dickie ci dice che un'opera d'arte è un artefatto a cui il "mondo dell'arte" ha conferito tale status. Insomma, è arte ciò che i critici, i galleristi e i collezionisti decidono che sia arte. Una definizione, come dire, un po' minimalista. E che solleva un'altra domanda: se chiunque si autoproclami membro del "mondo dell'arte" può decidere cosa è arte, non rischiamo di finire in un caos totale?

      Danto stesso, in seguito, cercherà di dare una definizione più sostanziosa, sostenendo che qualcosa è arte se possiede un significato e lo incorpora in un supporto materiale. Ma anche qui, sorgono molti dubbi, dal momento che qualsiasi immagine, qualsiasi testo, potrebbe soddisfare queste condizioni. E allora, dove sta la differenza tra un'opera d'arte e un volantino pubblicitario?

      Insomma, amici cari, siamo in alto mare. L'arte contemporanea sembra aver smarrito la bussola, persa in un labirinto di teorie astratte, speculazioni economiche e provocazioni sterili. Certo, ci sono ancora artisti che creano opere significative, che ci fanno riflettere, che ci emozionano. Ma sono sempre più rari, sommersi da un mare di banalità e mediocrità e, soprattutto, fuori dai circuiti che contano e che offrono visibilità.

      E allora, cosa fare? Rassegnarci all'idea che l'arte sia morta, o che sia diventata un gioco per miliardari? Io credo di no. Credo che sia necessario tornare a pensare, a discutere, a mettere in discussione i dogmi e le convenzioni. A pretendere che l'arte torni a essere portatrice di significato, di bellezza, di verità. Anche a costo di sembrare dei vecchi brontoloni fuori moda. Perché, in fondo, l'arte è troppo importante per lasciarla nelle mani di chi la considera solo un investimento finanziario o un'occasione per mettersi in mostra. E chissà che, un giorno, non ci ritroveremo a rimpiangere le care, vecchie, scatole di detersivo. Almeno quelle, servivano a qualcosa.


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