Per una filosofia materiale dell'immagine
“L'immagine non è una rappresentazione del mondo, ma un mondo possibile che si offre all'esperienza.”
Gilles Deleuze
“La mano che disegna apre un varco nell'essere. Disegnare non è imitare ciò che si vede; è rendere visibile.”
Paul Klee
“Il pensiero è a volte più vicino alla terra di quanto l'occhio non creda.”
Martin Heidegger
Nel silenzio del mio studio, tra le dita sporche di colore e la carta che oppone la sua resistenza, l'immagine smette di essere specchio passivo del mondo e inizia a pensare. Non riflette più pensieri già formati, ma diventa il luogo stesso dove il pensiero nasce, si incarna e respira. La mano sa cose che la mente non ha ancora pensato, si muove seguendo una sapienza del corpo che precede e orienta la riflessione concettuale. Questa è la rivoluzione silenziosa dell'arte concettuale contemporanea: scoprire che il corpo non è strumento del pensiero ma luogo del pensare. Quello che la tradizione ha sempre considerato un ostacolo da superare (la tela che assorbe il colore in modi imprevisti o la foto sfocata che rivela dettagli nascosti) si rivela invece la condizione stessa del pensare autentico. La resistenza materiale non è nemico da vincere ma alleato da ascoltare: la materia "sbaglia" in modi che aprono direzioni impensate, impone i suoi tempi creando pause riflessive obbligate. Il pensiero emerge dal confronto tra intenzione e resistenza del medium, dalla negoziazione continua tra quello che vorremmo dire e quello che il mondo ci permette di dire. In questo dialogo incessante, scopriamo che il pensiero non è immateriale ma emerge sempre dalla collaborazione con la resistenza del mondo. L'idea più astratta nasce dal corpo che tocca, manipola e si scontra con la densità delle cose. Documentare l'incertezza, registrare i momenti di indecisione, rinforzare le zone di ambiguità sono piccoli gesti che preservano quella fragilità generativa senza la quale il pensiero si irrigidisce in dogma. Anche una presenza differita diventa struttura stessa del visivo: tracce senza origine, segni che rimandano a gesti non più presenti, senso che arriva sempre dopo. Ogni presenza è costitutivamente abitata dall'assenza, e il pensiero emerge da questa struttura differenziale. Non nostalgia dell'origine perduta, ma celebrazione della capacità dell'immagine di evocare presenze impossibili che non rappresentano il mondo ma che, in un certo senso, lo generano. L'arte diventa una forma di ricerca ontologica, un’indagine su come potrebbero essere le cose, non solo su come sono. Ogni opera è un laboratorio dove testare possibilità di esistenza, dove dare forma a potenze ancora inespresse. In questo senso, creare immagini è un atto etico: si mettono in circolazione nuove possibilità di vita, allargando i confini del pensabile e del vivibile. Non si tratta solo di concetti astratti ma di indicazioni operative per chiunque voglia fare dell'immagine un autentico esercizio di pensiero che insieme a gesto e materia esprimono un unico processo. In estrema sintesi penso facendo, rispettando il tempo del materiale, accogliendo ciò che si oppone al nostro progetto, mantenendo zone di incertezza e ricordando che il corpo è luogo e mezzo del filosofare. L'immagine fa quello che dice. Non descrive ma agisce, non rappresenta ma presenta. In ogni gesto che lascia traccia, in ogni materiale che oppone resistenza, in ogni tempo che si stratifica, pulsa la promessa di un pensiero diverso: più corporeo, più paziente e più aperto all'imprevisto.
Nel silenzio dello studio, tra le dita sporche di colore e la carta che oppone la sua resistenza, l'immagine continua a pensare. E noi, se sapremo ascoltare, penseremo insieme a lei.
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