Eteronimi

“Ho tenuto in mano qualcosa di leggero, così leggero che bastava un filo a trattenerlo. Credevo fosse la speranza, ma era solo il peso che ancora non conoscevo. Poi sono stato a lungo in piedi. Con la spada piantata nella sabbia come radice e giuramento. Il mare mi parlava di ciò che non torna mentre io rispondevo restando fermo. Ogni giorno era una battaglia senza nemici: solo il vento e l'attesa. Ora siedo accanto a ciò che ho sempre combattuto. Il tempo ha smesso di nascondersi; si mostra nei suoi ingranaggi e nelle sue crepe. Non è crudele. E io, finalmente, posso guardarlo senza più dover vincere. Le conchiglie intorno a me sono le vite che ho attraversato. Ognuna conteneva un'eco di mare che non c'è più. Le raccolgo non per ricordare, ma per sapere che anche sparire è una forma dell'esistere.”
Luigi M. Verde
      La singola fotografia, isolata, rimane muta. Non chiede interpretazioni, non offre chiavi. È un rettangolo di carta che potrebbe significare qualunque cosa o niente. Questa libertà appartiene a chi guarda e non intendo sottrarla. L'insieme è un'altra questione, parla una lingua che ha grammatica e sintassi, che sottende una volontà —la mia— di frugare oltre le apparenze, per quanto consolatorie queste possano essere. Questa opera tratta dell'impossibilità del volo. Non in senso letterale, naturalmente. Il volo qui è desiderio, evasione, trascendenza, il sogno di sottrarsi alla gravità del tempo e delle circostanze. L'opera attraversa questo tema senza illustrarlo, senza didascalie, senza la rassicurazione di un messaggio decifrabile. Ci sono oggetti destinati a sollevarsi. C'è un cielo, ma il volo non avviene. Viene trattenuto, differito, reso grottesco dal contesto, privato di senso. Questa negazione è precisione, è rifiuto di una consolazione facile che vorrebbe il desiderio sempre compiuto, la tensione sempre risolta, l'arco narrativo sempre chiuso da una redenzione.

      L'opera tratta anche del tempo, ma non come tema separato. Tempo e volo sono legati: volare è uscire dal tempo, sottrarvisi. Restare a terra è accettare di essere dentro il meccanismo, tra gli ingranaggi. Questa sequenza mostra figure che stanno a terra mentre qualcosa di alato le circonda senza riguardarle. Il meccanismo del tempo è visibile fin dall'inizio. Non nascosto, non metaforico: esposto, crepato, con i denti delle ruote in bella vista. Nasciamo già dentro il guasto. La rottura è la condizione originaria. Eppure —e questo è il cuore etico dell'opera— le figure non si arrendono.
      Il cavaliere in piedi è un atto di insurrezione metafisica. Non combatte per vincere (impossibile), ma per affermare la verticalità come forma. È il "nonostante" incarnato: so che il tempo è rotto, so che il mare cancellerà ogni traccia, eppure sto in piedi. La spada piantata nella sabbia è un gesto assurdo e quindi autenticamente umano. La donna non aspetta il cavaliere, forse non sa nemmeno che esiste. Il palloncino non è un messaggio ma un peso leggero che porta con sé, un'assurdità personale che non ha bisogno di destinatari. Non c'è conciliazione ma solo compresenza di solitudini.

      Il palloncino e i gabbiani non sono dettagli decorativi ma vettori. Entrambi appartengono all'aria, al desiderio di sottrarsi alla gravità del tempo. Il cavaliere è piantato nella sabbia, ancorato; l'orologio è pesante, le conchiglie sono residui di creature che strisciavano. Ma sopra, intorno, qualcosa vola, indifferente e irraggiungibile. Il palloncino è un volo trattenuto. È desiderio che non si compie, tensione senza risoluzione. Lo stesso drago è un volo impossibile nel reale.
      E dopo qualche immagine figurativa ecco che irrompe il linguaggio, il segno arbitrario, il nome, il binarismo assoluto. L'eteronimo nasce prima come nome, poi come voce, poi come corpo testuale. "Drago" scritto su carta è l'atto di nominazione che precede (e forse impedisce) l'esistenza. Nel momento in cui scriviamo "drago", lo confiniamo nella parola; quando poi appare l'immagine, esso è già prigioniero del suo nome. Ma c'è un'altra lettura: la parola è anche evocazione. Scrivere è un incantesimo, un tentativo di far apparire ciò che non c'è.
      Il collegamento donna-drago è una trappola narrativa: la dama e il mostro, la dama e il salvatore alato, la dama che fugge sul dorso del drago. Fiaba. Ma qui avviene il contrario: il drago non la riguarda, la donna non lo attende, i due sono compresenza senza relazione. Il drago in città, come il cavaliere sulla spiaggia, sono fuori tempo, fuori luogo, ma presenti. Tutto diventa una costellazione di solitudini parallele: il cavaliere che lotta col tempo, la donna che trattiene il suo desiderio, il drago che incarna un volo senza destinazione. Nessuno salva nessuno. Nessuno incontra nessuno.
      Un cielo in bianco e nero accompagnerebbe la serie in modo coerente. Resterebbe vuoto nello stesso modo in cui è vuoto sopra il cavaliere, sopra la donna, sopra il drago. Ma l'aporia è l'impasse, il punto in cui il ragionamento si blocca perché incontra una contraddizione insuperabile: un cielo a colori è la crepa nel sistema. Direbbe: c'è qualcosa che questa grammatica non riesce a contenere. Un gesto rischioso, quasi violento e spiazzante. Lo si potrebbe leggerlo come errore, come incoerenza, ma è anche irruzione del reale che l'opera ha negato, filtrato, tenuto a distanza e che, presto o tardi, reclama la propria presenza. La promessa non è stata mantenuta, ma il luogo della promessa è ancora lì, nella sua pienezza cromatica, indifferente al fallimento di chi lo guarda da terra.
      L'opera potrebbe continuare. Potrebbe chiudersi su un'immagine di pura assenza oppure potrebbe restare così, sospesa, nella sua incompletezza come forma deliberata. Forse la decisione non mi appartiene: essa stessa indicherà dove e se vuole fermarsi. E forse è questo che cercavo: non spiegare la condizione umana, ma starci dentro, con la dignità di chi non aspetta più una risposta e, proprio per questo, può finalmente restare fermo.
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