Il verso della fotografia
“Sono oggi il punto d'incontro di una piccola umanità che è solo mia.”
Fernando Pessoa
“Il tempo è la sostanza di cui sono fatto. Il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono il fiume; è una tigre che mi sbrana, ma io sono la tigre; è un fuoco che mi consuma, ma io sono il fuoco.”
Jorge Luis Borges
C'è un momento, nella creazione di un'immagine, in cui tutto si ribalta. Il fotografo diventa soggetto, il passato diventa futuro, il visibile si fa opaco. È quello che mi è successo lavorando a tre fotografie che, nelle mie intenzioni, dovevano essere semplici ritratti e che invece sono diventate qualcos'altro. Una trappola concettuale in cui sono caduto per primo e da cui non sono sicuro di voler uscire. Queste tre immagini fanno parte di un progetto sul ritratto interiore, dove ogni volto che fotografo è un mio autoritratto nel senso che storie, volti, persone diventano maschere attraverso cui racconto aspetti di me che altrimenti non saprei esprimere. È un'idea che devo a Fernando Pessoa, il poeta portoghese che inventò decine di personalità letterarie, non pseudonimi, ma veri e propri eteronimi: poeti con biografie, stili, visioni del mondo completamente diverse. Álvaro de Campos non era Pessoa con un altro nome; era un altro. Ecco: io cerco di fare la stessa cosa con le immagini. Ogni ritratto è un eteronimo visivo.
La prima immagine mostra una donna anziana, seduta su uno sgabello in uno spazio scuro, quasi teatrale. Tiene tra le mani una vecchia fotografia ingiallita, con le pieghe del tempo, che mostra una giovane donna. Potrebbe essere lei, decenni fa. Il ritratto nel ritratto, il passato che riemerge nel presente. Fin qui, niente di strano. È un gesto che conosciamo tutti: la nonna che mostra la foto di quando era ragazza, il confronto tra ciò che siamo e ciò che siamo stati. Roland Barthes, in quel libro meraviglioso e straziante che è La camera chiara, ha dedicato pagine indimenticabili a questo tema. Per lui la fotografia è sempre necromantica, evoca i morti, trattiene ciò che non c'è più. Il suo ça a été, il "questo-è-stato", è il cuore pulsante di ogni immagine fotografica: la prova che qualcosa è esistito, ha emesso luce, ha impressionato una superficie sensibile. L'anziana con la foto della giovane è barthesiana nel senso più puro. Guarda ciò che è morto, la sua giovinezza, quel corpo che non esiste più, quel volto che il tempo ha trasformato. È un atto di memoria, di nostalgia e forse di lutto. La seconda immagine ribalta tutto. Stessa ambientazione, stesso sgabello, stessi toni scuri. Ma stavolta è una giovane donna a tenere una fotografia. E quella fotografia —invecchiata, piegata, consumata— mostra una donna anziana. La stessa donna, anni dopo. Fermatevi un momento su questa impossibilità. Come può esistere una fotografia del futuro? Come può la giovane tenere tra le mani l'immagine di ciò che non è ancora accaduto? Il ça a été di Barthes collassa. Non più questo-è-stato ma qualcosa che la stessa grammatica fatica a contenere: questo-sarà-stato, un futuro anteriore che esiste solo nel linguaggio e, adesso, in questa immagine. La fotografia smette di essere traccia del passato per diventare profezia materializzata, visione di ciò che verrà. E notate un dettaglio che mi ossessiona: anche la foto del futuro è invecchiata. Ha pieghe, usura, patina. Come se anche ciò che non è ancora accaduto ci arrivasse già consumato dal tempo, già vissuto prima di essere vissuto. La memoria non è solo retrospettiva; può essere anche prospettiva. Ricordiamo ciò che saremo con la stessa nostalgia con cui ricordiamo ciò che siamo stati. C'è un altro elemento che colpisce: l'espressione delle due donne. L'anziana, nella prima immagine, ha uno sguardo grave, quasi severo. La giovane, nella seconda, sorride dolcemente. È come se il tempo non fosse neutro, come se invecchiare fosse un processo di ispessimento, di accumulo non solo di anni ma di peso esistenziale. Oppure, letto al contrario: come se la giovinezza fosse un'illusione di leggerezza che il tempo si incaricherà di correggere. La terza immagine è quella che mi ha fatto capire cosa stavo realmente facendo. La donna anziana è tornata, ma non è più seduta composta sullo sgabello. È a terra, i piedi nudi, le gambe raccolte, una postura di vulnerabilità, quasi fetale. Tiene una fotografia, ma stavolta noi non vediamo cosa contiene. Vediamo solo il retro: cartone marrone, anonimo, opaco. La fotografia, medium della visibilità per eccellenza, si presenta nel suo verso cieco. È un'inversione radicale: sappiamo che c'è un'immagine, vediamo qualcuno che la guarda con un'intensità che potrebbe essere terrore o stupore o riconoscimento, ma il contenuto ci è negato. Cosa vede? La sua foto da giovane? Da anziana? Di sé stessa morta, una fotografia post-mortem, genere che esisteva nell'Ottocento? Del fotografo, cioè di me? Di noi che la guardiamo guardare? L'indecidibilità è totale. E proprio in questa opacità si rivela qualcosa di essenziale: che il gioco degli sguardi, una volta innescato, non ha fondo. Siamo costretti a immaginare ciò che lei vede e in questo gesto, finiamo per proiettare noi stessi. La foto nascosta diventa uno specchio per chi guarda l'immagine.
È a questo punto che mi sono ricordato di un libro che avevo letto anni fa: Le parole e le cose di Michel Foucault. Il filosofo francese apre il suo saggio monumentale con l'analisi di un quadro: Las Meninas di Diego Velázquez, dipinto nel 1656. La scena è celebre: il pittore si ritrae mentre dipinge, ma la tela su cui lavora ci è mostrata di spalle, non vediamo cosa stia dipingendo. L'Infanta Margherita è al centro, circondata dalle sue damigelle, ma guarda verso l'esterno del quadro. Sul fondo, uno specchio mostra due figure sfocate: il re e la regina di Spagna, che quindi stanno davanti al quadro, dove siamo noi. Il colpo di genio di Velázquez —e l'intuizione di Foucault— è che lo spettatore si trova a occupare il posto del re. Siamo dove stanno i sovrani, siamo ciò che il pittore sta dipingendo, siamo ciò che tutti i personaggi guardano. Tre posizioni incompatibili che il quadro costringe a occupare simultaneamente. Quando ho riletto quelle pagine, ho capito cosa stavo costruendo senza saperlo. La terza fotografia —quella con l'immagine nascosta— replica esattamente la struttura della tela rovesciata di Velázquez. Sappiamo che c'è un'immagine, vediamo qualcuno che la guarda, ma il contenuto ci è precluso. È un buco nero semantico che attira tutto verso di sé senza rivelare nulla. Velázquez usa uno specchio per chiudere il circuito della rappresentazione: mostra chi sta davanti al quadro. Io uso fotografie dentro fotografie ma temporalizzate. Non riflettono chi sta davanti ora, ma chi era o chi sarà. Lo specchio di Velázquez è sincronico; le mie foto sono diacroniche. Lo specchio riflette lo spazio; le fotografie riflettono il tempo. Ma c'è un'altra cosa che mi ha colpito. Velázquez si include nel proprio quadro è lì, pennello in mano, riconoscibile. Io invece non appaio mai direttamente. Sono presente solo attraverso i volti che fotografo, disperso nelle maschere dei miei eteronimi. Velázquez pratica un autoritratto decentrato, si dipinge di lato, non al centro. Io pratico un autoritratto dissolto, non c'è un punto dove dire eccomi, solo una costellazione di volti altri che, nel loro insieme, forse mi delineano. È come se dicessi: esisto solo frammentato in queste storie, non c'è un volto originale dietro le maschere.
Torno a Barthes, perché non riesco a liberarmene. La camera chiara è, sotto la sua superficie teorica, un libro di lutto. Barthes lo scrive dopo la morte della madre e tutto ruota attorno a una fotografia che lui non mostra mai: la madre bambina nel Giardino d'Inverno. La descrive, ne fa il centro gravitazionale del libro, ma non ce la mostra. Per noi non significherebbe nulla, dice, vedremmo solo una bambina qualunque. Anche la mia terza immagine nasconde una fotografia. Ma le ragioni sono opposte. Barthes non mostra la foto per proteggerla dalla banalizzazione, lui sa cosa c'è, noi no. Io nascondo la foto per moltiplicare le possibilità, nessuno sa cosa c'è e in questa indecidibilità si apre uno spazio che ogni spettatore riempirà a modo suo. Barthes usa la fotografia per resistere al tempo, per trattenere la madre morta. Io uso la fotografia per abitare il tempo in tutte le sue dimensioni simultaneamente. Non resistenza ma espansione. Non lutto ma diffrazione. Eppure mi chiedo se anche il mio gesto non contenga una forma di lutto. Non per qualcuno che è morto, ma per tutti i sé che non sono diventato, per tutte le vite possibili che non ho vissuto. L'anziana che tiene la foto della giovane piange forse la ragazza che non tornerà; la giovane che tiene la foto dell'anziana piange forse la leggerezza che perderà. E io, disperso in queste maschere, piango forse l'impossibilità di essere uno solo, definito, conchiuso. C'è una frase che mi guida da quando ho iniziato questo progetto: storie inventate, impossibili, ma estremamente reali. La foto della giovane che tiene l'immagine di sé anziana è logicamente impossibile. Eppure esiste, la vediamo, produce un effetto su di noi. L'impossibilità logica non cancella la realtà fenomenologica. Questo è ciò che fa l'arte: rende reale l'impossibile, dà corpo a ciò che non può esistere. La fotografia, che Barthes legava così strettamente al questo è stato, può diventare il medium del questo non può essere eppure è. E qui si rivela l'incredibile plasticità dello strumento fotografico. Barthes costruisce la sua teoria su un'idea della fotografia come traccia fisica, collegamento causale tra il referente e l'immagine, la luce ha toccato quel corpo, ha impresso quella superficie. Ma la fotografia non è mai stata solo questo. Fin dai suoi albori ha incluso il fotomontaggio, la manipolazione, la messa in scena. La verità fotografica è sempre stata anche una convenzione, un effetto che può essere prodotto artificialmente. Le mie immagini non mentono dicendo di essere vere; mostrano apertamente la loro costruzione, dichiarano l'impossibilità di ciò che mostrano. E proprio in questa dichiarazione trovano, paradossalmente, una verità più profonda: quella dell'esperienza del tempo, della molteplicità dell'io, dell'impossibilità di ridursi a un solo volto.
In ottica esiste il "punto cieco", la zona della retina dove il nervo ottico si connette e dove quindi non ci sono fotorecettori. Non vediamo il nostro punto cieco; il cervello lo riempie con informazioni circostanti. Il fotografo, in questo progetto, è il punto cieco delle immagini. Sono ovunque presente, nelle maschere, nelle storie ma in nessun luogo visibile direttamente. Le immagini si organizzano attorno a me senza mai mostrarmi. Velázquez si dipinge, sì, ma di lato, defilato. Foucault che analizza il quadro è completamente assente dall'immagine, viene dopo, da fuori, è pura voce interpretante. Io sono il punto cieco che genera le immagini: non posso fotografarmi direttamente perché il progetto riguarda proprio l'impossibilità di un autoritratto diretto. Posso solo fotografarmi come altro, accettando che il mio volto resterà sempre fuori campo. Forse è questo che cerco: non di mostrarmi ma di mostrare come non riesco a mostrarmi. Non di definire chi sono ma di mappare lo spazio dei possibili, la costellazione delle maschere, l'orbita attorno a un centro che deve restare vuoto. Se dovessi tracciare una linea che mi connette a chi è venuto prima, direi così: Velázquez, nel 1656, mostra che il pittore può entrare nel quadro solo decentrandosi, che la rappresentazione può rappresentare se stessa solo aprendosi verso un abisso, il soggetto si moltiplica, lo sguardo si frammenta, il centro si svuota. Foucault, nel 1966, mostra che l'interprete può entrare nel quadro solo raddoppiandolo in parole, che analizzare un'immagine significa sempre anche produrne un'altra, fatta di concetti invece che di pigmenti. Io, oggi, cerco di mostrare che il fotografo può entrare nella fotografia solo scomparendo in altre vite, che l'autoritratto più vero passa attraverso l'altro, che l'identità non è un punto ma una traiettoria. Non è una successione lineare ma una spirale: ogni giro riprende i temi del precedente e li rilancia. Velázquez gioca con lo spazio, io gioco con il tempo. Foucault analizza la nascita del soggetto moderno, io ne esploro la dissoluzione o la trasformazione in qualcosa di più fluido e meno sostanziale.
Scrivo queste note e mi accorgo di aver costruito un altro gioco di specchi. Io che parto da Foucault che descrive il quadro di Velázquez che mostra un autoritratto del pittore. Scatole cinesi, riflessi che rimandano ad altri riflessi. E adesso voi che leggete queste parole su queste immagini che contengono altre immagini... Un vortice, sì. Ma un vortice non è caos: è una struttura ordinata che ruota attorno a un centro vuoto. L'acqua scende seguendo linee precise, ma al centro non c'è nulla, solo un buco da cui tutto defluisce. Le mie immagini ruotano attorno a un centro: la mia identità, il mio volto che resta vuoto. Più aggiungo maschere, più il centro si conferma come assenza. Più cerco il vero me stesso, più trovo il movimento delle maschere. Non so se questo sia un fallimento o una riuscita. Forse è semplicemente la condizione di chi fa immagini: essere sempre altrove rispetto a ciò che mostra, sempre in ritardo o in anticipo, sempre fuori campo. La donna anziana continua a guardare quella fotografia che non vedremo mai. E in quello sguardo —che potrebbe essere il mio, che potrebbe essere il vostro— c'è tutta la vertigine del tempo, dell'identità, del visibile e dell'invisibile.
Il vortice continua. Non c'è fondo da toccare. C'è solo il movimento e quella strana pace che si trova nell'accettare la vertigine invece di resisterle.
Pensare per immagini. Un viaggio tra fotografia, filosofia e linguaggio
La Sintassi del Visivo
L'Immagine Pensosa di Jacques Rancière: una zona di Indecidibilità tra Ragione ed Esperienza
Sulla post-fotografia
Fernando Pessoa
“Il tempo è la sostanza di cui sono fatto. Il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono il fiume; è una tigre che mi sbrana, ma io sono la tigre; è un fuoco che mi consuma, ma io sono il fuoco.”
Jorge Luis Borges
C'è un momento, nella creazione di un'immagine, in cui tutto si ribalta. Il fotografo diventa soggetto, il passato diventa futuro, il visibile si fa opaco. È quello che mi è successo lavorando a tre fotografie che, nelle mie intenzioni, dovevano essere semplici ritratti e che invece sono diventate qualcos'altro. Una trappola concettuale in cui sono caduto per primo e da cui non sono sicuro di voler uscire. Queste tre immagini fanno parte di un progetto sul ritratto interiore, dove ogni volto che fotografo è un mio autoritratto nel senso che storie, volti, persone diventano maschere attraverso cui racconto aspetti di me che altrimenti non saprei esprimere. È un'idea che devo a Fernando Pessoa, il poeta portoghese che inventò decine di personalità letterarie, non pseudonimi, ma veri e propri eteronimi: poeti con biografie, stili, visioni del mondo completamente diverse. Álvaro de Campos non era Pessoa con un altro nome; era un altro. Ecco: io cerco di fare la stessa cosa con le immagini. Ogni ritratto è un eteronimo visivo.
La prima immagine mostra una donna anziana, seduta su uno sgabello in uno spazio scuro, quasi teatrale. Tiene tra le mani una vecchia fotografia ingiallita, con le pieghe del tempo, che mostra una giovane donna. Potrebbe essere lei, decenni fa. Il ritratto nel ritratto, il passato che riemerge nel presente. Fin qui, niente di strano. È un gesto che conosciamo tutti: la nonna che mostra la foto di quando era ragazza, il confronto tra ciò che siamo e ciò che siamo stati. Roland Barthes, in quel libro meraviglioso e straziante che è La camera chiara, ha dedicato pagine indimenticabili a questo tema. Per lui la fotografia è sempre necromantica, evoca i morti, trattiene ciò che non c'è più. Il suo ça a été, il "questo-è-stato", è il cuore pulsante di ogni immagine fotografica: la prova che qualcosa è esistito, ha emesso luce, ha impressionato una superficie sensibile. L'anziana con la foto della giovane è barthesiana nel senso più puro. Guarda ciò che è morto, la sua giovinezza, quel corpo che non esiste più, quel volto che il tempo ha trasformato. È un atto di memoria, di nostalgia e forse di lutto. La seconda immagine ribalta tutto. Stessa ambientazione, stesso sgabello, stessi toni scuri. Ma stavolta è una giovane donna a tenere una fotografia. E quella fotografia —invecchiata, piegata, consumata— mostra una donna anziana. La stessa donna, anni dopo. Fermatevi un momento su questa impossibilità. Come può esistere una fotografia del futuro? Come può la giovane tenere tra le mani l'immagine di ciò che non è ancora accaduto? Il ça a été di Barthes collassa. Non più questo-è-stato ma qualcosa che la stessa grammatica fatica a contenere: questo-sarà-stato, un futuro anteriore che esiste solo nel linguaggio e, adesso, in questa immagine. La fotografia smette di essere traccia del passato per diventare profezia materializzata, visione di ciò che verrà. E notate un dettaglio che mi ossessiona: anche la foto del futuro è invecchiata. Ha pieghe, usura, patina. Come se anche ciò che non è ancora accaduto ci arrivasse già consumato dal tempo, già vissuto prima di essere vissuto. La memoria non è solo retrospettiva; può essere anche prospettiva. Ricordiamo ciò che saremo con la stessa nostalgia con cui ricordiamo ciò che siamo stati. C'è un altro elemento che colpisce: l'espressione delle due donne. L'anziana, nella prima immagine, ha uno sguardo grave, quasi severo. La giovane, nella seconda, sorride dolcemente. È come se il tempo non fosse neutro, come se invecchiare fosse un processo di ispessimento, di accumulo non solo di anni ma di peso esistenziale. Oppure, letto al contrario: come se la giovinezza fosse un'illusione di leggerezza che il tempo si incaricherà di correggere. La terza immagine è quella che mi ha fatto capire cosa stavo realmente facendo. La donna anziana è tornata, ma non è più seduta composta sullo sgabello. È a terra, i piedi nudi, le gambe raccolte, una postura di vulnerabilità, quasi fetale. Tiene una fotografia, ma stavolta noi non vediamo cosa contiene. Vediamo solo il retro: cartone marrone, anonimo, opaco. La fotografia, medium della visibilità per eccellenza, si presenta nel suo verso cieco. È un'inversione radicale: sappiamo che c'è un'immagine, vediamo qualcuno che la guarda con un'intensità che potrebbe essere terrore o stupore o riconoscimento, ma il contenuto ci è negato. Cosa vede? La sua foto da giovane? Da anziana? Di sé stessa morta, una fotografia post-mortem, genere che esisteva nell'Ottocento? Del fotografo, cioè di me? Di noi che la guardiamo guardare? L'indecidibilità è totale. E proprio in questa opacità si rivela qualcosa di essenziale: che il gioco degli sguardi, una volta innescato, non ha fondo. Siamo costretti a immaginare ciò che lei vede e in questo gesto, finiamo per proiettare noi stessi. La foto nascosta diventa uno specchio per chi guarda l'immagine.
È a questo punto che mi sono ricordato di un libro che avevo letto anni fa: Le parole e le cose di Michel Foucault. Il filosofo francese apre il suo saggio monumentale con l'analisi di un quadro: Las Meninas di Diego Velázquez, dipinto nel 1656. La scena è celebre: il pittore si ritrae mentre dipinge, ma la tela su cui lavora ci è mostrata di spalle, non vediamo cosa stia dipingendo. L'Infanta Margherita è al centro, circondata dalle sue damigelle, ma guarda verso l'esterno del quadro. Sul fondo, uno specchio mostra due figure sfocate: il re e la regina di Spagna, che quindi stanno davanti al quadro, dove siamo noi. Il colpo di genio di Velázquez —e l'intuizione di Foucault— è che lo spettatore si trova a occupare il posto del re. Siamo dove stanno i sovrani, siamo ciò che il pittore sta dipingendo, siamo ciò che tutti i personaggi guardano. Tre posizioni incompatibili che il quadro costringe a occupare simultaneamente. Quando ho riletto quelle pagine, ho capito cosa stavo costruendo senza saperlo. La terza fotografia —quella con l'immagine nascosta— replica esattamente la struttura della tela rovesciata di Velázquez. Sappiamo che c'è un'immagine, vediamo qualcuno che la guarda, ma il contenuto ci è precluso. È un buco nero semantico che attira tutto verso di sé senza rivelare nulla. Velázquez usa uno specchio per chiudere il circuito della rappresentazione: mostra chi sta davanti al quadro. Io uso fotografie dentro fotografie ma temporalizzate. Non riflettono chi sta davanti ora, ma chi era o chi sarà. Lo specchio di Velázquez è sincronico; le mie foto sono diacroniche. Lo specchio riflette lo spazio; le fotografie riflettono il tempo. Ma c'è un'altra cosa che mi ha colpito. Velázquez si include nel proprio quadro è lì, pennello in mano, riconoscibile. Io invece non appaio mai direttamente. Sono presente solo attraverso i volti che fotografo, disperso nelle maschere dei miei eteronimi. Velázquez pratica un autoritratto decentrato, si dipinge di lato, non al centro. Io pratico un autoritratto dissolto, non c'è un punto dove dire eccomi, solo una costellazione di volti altri che, nel loro insieme, forse mi delineano. È come se dicessi: esisto solo frammentato in queste storie, non c'è un volto originale dietro le maschere.
Torno a Barthes, perché non riesco a liberarmene. La camera chiara è, sotto la sua superficie teorica, un libro di lutto. Barthes lo scrive dopo la morte della madre e tutto ruota attorno a una fotografia che lui non mostra mai: la madre bambina nel Giardino d'Inverno. La descrive, ne fa il centro gravitazionale del libro, ma non ce la mostra. Per noi non significherebbe nulla, dice, vedremmo solo una bambina qualunque. Anche la mia terza immagine nasconde una fotografia. Ma le ragioni sono opposte. Barthes non mostra la foto per proteggerla dalla banalizzazione, lui sa cosa c'è, noi no. Io nascondo la foto per moltiplicare le possibilità, nessuno sa cosa c'è e in questa indecidibilità si apre uno spazio che ogni spettatore riempirà a modo suo. Barthes usa la fotografia per resistere al tempo, per trattenere la madre morta. Io uso la fotografia per abitare il tempo in tutte le sue dimensioni simultaneamente. Non resistenza ma espansione. Non lutto ma diffrazione. Eppure mi chiedo se anche il mio gesto non contenga una forma di lutto. Non per qualcuno che è morto, ma per tutti i sé che non sono diventato, per tutte le vite possibili che non ho vissuto. L'anziana che tiene la foto della giovane piange forse la ragazza che non tornerà; la giovane che tiene la foto dell'anziana piange forse la leggerezza che perderà. E io, disperso in queste maschere, piango forse l'impossibilità di essere uno solo, definito, conchiuso. C'è una frase che mi guida da quando ho iniziato questo progetto: storie inventate, impossibili, ma estremamente reali. La foto della giovane che tiene l'immagine di sé anziana è logicamente impossibile. Eppure esiste, la vediamo, produce un effetto su di noi. L'impossibilità logica non cancella la realtà fenomenologica. Questo è ciò che fa l'arte: rende reale l'impossibile, dà corpo a ciò che non può esistere. La fotografia, che Barthes legava così strettamente al questo è stato, può diventare il medium del questo non può essere eppure è. E qui si rivela l'incredibile plasticità dello strumento fotografico. Barthes costruisce la sua teoria su un'idea della fotografia come traccia fisica, collegamento causale tra il referente e l'immagine, la luce ha toccato quel corpo, ha impresso quella superficie. Ma la fotografia non è mai stata solo questo. Fin dai suoi albori ha incluso il fotomontaggio, la manipolazione, la messa in scena. La verità fotografica è sempre stata anche una convenzione, un effetto che può essere prodotto artificialmente. Le mie immagini non mentono dicendo di essere vere; mostrano apertamente la loro costruzione, dichiarano l'impossibilità di ciò che mostrano. E proprio in questa dichiarazione trovano, paradossalmente, una verità più profonda: quella dell'esperienza del tempo, della molteplicità dell'io, dell'impossibilità di ridursi a un solo volto.
In ottica esiste il "punto cieco", la zona della retina dove il nervo ottico si connette e dove quindi non ci sono fotorecettori. Non vediamo il nostro punto cieco; il cervello lo riempie con informazioni circostanti. Il fotografo, in questo progetto, è il punto cieco delle immagini. Sono ovunque presente, nelle maschere, nelle storie ma in nessun luogo visibile direttamente. Le immagini si organizzano attorno a me senza mai mostrarmi. Velázquez si dipinge, sì, ma di lato, defilato. Foucault che analizza il quadro è completamente assente dall'immagine, viene dopo, da fuori, è pura voce interpretante. Io sono il punto cieco che genera le immagini: non posso fotografarmi direttamente perché il progetto riguarda proprio l'impossibilità di un autoritratto diretto. Posso solo fotografarmi come altro, accettando che il mio volto resterà sempre fuori campo. Forse è questo che cerco: non di mostrarmi ma di mostrare come non riesco a mostrarmi. Non di definire chi sono ma di mappare lo spazio dei possibili, la costellazione delle maschere, l'orbita attorno a un centro che deve restare vuoto. Se dovessi tracciare una linea che mi connette a chi è venuto prima, direi così: Velázquez, nel 1656, mostra che il pittore può entrare nel quadro solo decentrandosi, che la rappresentazione può rappresentare se stessa solo aprendosi verso un abisso, il soggetto si moltiplica, lo sguardo si frammenta, il centro si svuota. Foucault, nel 1966, mostra che l'interprete può entrare nel quadro solo raddoppiandolo in parole, che analizzare un'immagine significa sempre anche produrne un'altra, fatta di concetti invece che di pigmenti. Io, oggi, cerco di mostrare che il fotografo può entrare nella fotografia solo scomparendo in altre vite, che l'autoritratto più vero passa attraverso l'altro, che l'identità non è un punto ma una traiettoria. Non è una successione lineare ma una spirale: ogni giro riprende i temi del precedente e li rilancia. Velázquez gioca con lo spazio, io gioco con il tempo. Foucault analizza la nascita del soggetto moderno, io ne esploro la dissoluzione o la trasformazione in qualcosa di più fluido e meno sostanziale.
Scrivo queste note e mi accorgo di aver costruito un altro gioco di specchi. Io che parto da Foucault che descrive il quadro di Velázquez che mostra un autoritratto del pittore. Scatole cinesi, riflessi che rimandano ad altri riflessi. E adesso voi che leggete queste parole su queste immagini che contengono altre immagini... Un vortice, sì. Ma un vortice non è caos: è una struttura ordinata che ruota attorno a un centro vuoto. L'acqua scende seguendo linee precise, ma al centro non c'è nulla, solo un buco da cui tutto defluisce. Le mie immagini ruotano attorno a un centro: la mia identità, il mio volto che resta vuoto. Più aggiungo maschere, più il centro si conferma come assenza. Più cerco il vero me stesso, più trovo il movimento delle maschere. Non so se questo sia un fallimento o una riuscita. Forse è semplicemente la condizione di chi fa immagini: essere sempre altrove rispetto a ciò che mostra, sempre in ritardo o in anticipo, sempre fuori campo. La donna anziana continua a guardare quella fotografia che non vedremo mai. E in quello sguardo —che potrebbe essere il mio, che potrebbe essere il vostro— c'è tutta la vertigine del tempo, dell'identità, del visibile e dell'invisibile.
Il vortice continua. Non c'è fondo da toccare. C'è solo il movimento e quella strana pace che si trova nell'accettare la vertigine invece di resisterle.
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